Ciao a tutti. Mi chiamo Emily Lawrence e ho tredici anni. Vivo a New York, in una casa-famiglia in Madison Avenue. La mia vita era uno schifo e capirete perché.
Non ero quel tipo di ragazza sfigata usata sempre come riserva nelle partite di pallavolo a scuola e che sbava tutto il giorno dietro al ragazzo che le piace ma che non la calcola. Decisamente no.
Nella mia scuola c'erano tre tipi di persone: i Popolari che comprendevano due quinti circa dei ragazzi della scuola, gli Sfigati che erano i restanti tre quinti e Io. Sì, io ero una categoria di ragazza. Nella mia classe gli sfigati abbondavano, ma almeno si divertivano tra di loro...
Io me ne stavo in un'angolino zitta zitta per tutto il tempo pregando che la giornata finisse il prima possibile. Ero una sottospecie umana. Un'essere non degno di essere visto. E a me stava bene così, per il momento.La mia passione era la chitarra, quel giorno avevo giusto la prima lezione. Non vedevo l'ora di lasciare quel posto pieno di babbei ignoranti e rincretiniti.
Mi sbattei la porta alle spalle con violenza. Mi avviai verso Park Avenue. Indossavo i miei soliti jeans stravecchi e un maglione, sotto al giubbotto di pelle che mi aveva regalato Riley prima di essere adottata.
Dopo un quarto d'ora di cammino bussai alla porta numero 18. Prima però controllai che per strada non ci fosse nessuno, a New York tutti sanno tutto di tutti e non volevo che le mie lezioni segrete venissero scoperte.
Venne ad aprirmi un ragazzo alto con i capelli neri, dimostrava circa vent'anni.
- Emily Lawrence? -
- sì. - risposi decisa alla domanda del ragazzo. Lui mi rivolse un sorriso splendente e mi fece segno di entrare.
- Alec Johnson. -
- cosa? -
- il mio nome, Alec Johnson -
Io e il ragazzo salimmo una rampa di scale fino ad arrivare ad un pianerottolo. Lui aprì una porta ed entrammo in una stanza piccola. Mi sistemai gli occhiali sul naso e osservai l'arredamento.
Vi era un divanetto e due poltrone, foderati in velluto verde, un piccolo tavolino e una mini cucina. Da un'altra porta probabilmente si accedeva al bagno. Quello non era il massimo come appartamento ma almeno era decisamente più accogliente rispetto alla casa-famiglia.Alec prese due chitarre che erano appoggiate in un angolo e me ne porse una. Ci sedemmo sulle poltrone uno difronte all'altra. Mi aiutò a sistemare lo strumento e iniziò a spiegarmi le varie note e la loro posizione.
Un'ora dopo era ormai pomeriggio inoltrato. Me ne dovevo andare altrimenti la Direttrice si sarebbe insospettita. Era meglio non rischiare.
- vuoi portare la chitarra con te? - mi chiese
- no, grazie. Non è una buona idea. Quanto di devo? -
- oh, no. Tranquilla. Non mi devi niente, per ora.- disse lui con un sorriso.
- allora ci vediamo giovedì? -
- sì, giovedì. Arrivederci! -
- ciao! -
Scesi di corsa le scale con i lunghi capelli neri che mi svolazzavano intorno al viso. Aprii la porta ed uscii in strada. Era deserta, come al solito. Stringendomi nel giubbotto mi incamminai verso Madison Avenue.
Poco dopo mi ritrovai a suonare il campanello della casa-famiglia. La Direttrice venne ad aprirmi vestita con il suo solito cardigan e la gonna fino al ginocchio entrambi color viola scuro.
- hai fatto tardi Emily. -
- aveva detto che potevo stare via per un'ora, ho rispettato l'orario - dissi con una leggera smorfia.
- un'ora e cinque. Sei stata via per un'ora e cinque minuti Emily. -
Quando iniziava a parlare con quella vocina stridula e apparentemente calma non si poteva far altro che abbassare la testa e cercare di non controbattere. E così feci. La donna si scostò e oltrepassai la soglia, ritrovandomi nel solito ingresso. Pareti bianche e teste di cervo impagliate appese ai muri. Ambiente ideale per dei bambini, decisamente sì.
Feci le scale e arrivai al primo piano. Lì, in punta di piedi, passai davanti alle camere di Brad, Tania, Rosie e Jasper. Loro erano i fighi dell'istituto. Non mi volevano tra i piedi e a me stava bene così, persone più antipatiche di loro non si potevano trovare.
Superato il primo piano attraversai il corridoio del secondo, dove c'erano le camere degli "sfigati".
Per ultimo salii al terzo piano dove c'era la mia camera. Ero isolata dagli altri perché nel piano degli sfigati le stanze erano tutte occupate, così come al primo piano.
In realtà non ero del tutto sola. Avevo una compagna di stanza. Sarei potuta essere felice, se Claudia fosse stata meno rompiscatole. Tutto il tempo a parlare e a chiedermi qualcosa...
Entrai in camera mia e accesi la lampadina. Mi levai gli occhiali (miopia, brutta faccenda). Erano tondi e argentati, di ferro. Li misi nella loro custodia sul comodino e mi infilai il pigiama. Chiusi la porta e mi ficcai sotto alle coperte. Estrassi dal cassetto il libro e lo aprii a pagina 416. Iniziai a leggere.
Non so quanto tempo dopo venne la vice-Direttrice a chiamarmi per la cena. Mi infilai la vestaglia e scesi di corsa le scale stando attenta a non inciampare. Attraversai la cucina e mi sedetti ad un'estremità del tavolo. Minestra di zucca e patate arrosto. Insieme erano la combinazione più schifosa che si potesse mangiare. Mi versarono la zuppa in una ciotola e ci buttarono dentro le patate.
Di mala voglia presi il cucchiaio e iniziai ad ingurgitare quella roba.Mezzora dopo ci lasciarono salire in camera. Io mi fiondai su per le scale, incespicando sui gradini, fino ad arrivare al terzo piano. Mi misi a leggere nuovamente. Ma la pace ebbe presto fine. La porta si aprì e vi fece capolino il viso paffutello di Claudia. Roteai gli occhi sbuffando e misi la testa sotto il cuscino, coprendomi con le coperte.
Il buio mi avvolse e presto anche il sonno. Mi lasciai cullare per alcuni minuti nel dormiveglia, poi chiusi gli occhi, anche se non ero per niente pronta ad affrontare un'altra giornata. Proprio no.
ANGOLO SCRITTRICE
Hy guys! Che ve ne pare ?
Questo libro non parlerà di lupi mannari per un po', ma spero che vi piaccia :)
Baci!
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Remember who you are
Lobisomem[in pausa] Sette adolescenti, una tredicenne scomparsa e licantropizzata, un fratello ritrovato, un Alpha da uccidere, un mistero da risolvere, un collegamento da capire e cinque cadaveri. «mi chiamo Emily Lawrence e ho tredici anni. Vivevo nella c...