2 Corallario di Odetta

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La casa è silenziosa e deserta. È vero che è sempre così, perché è molto grande, per le poche persone che vi abitano, ed è stata cura di Lucia insegnare alla servitù, a starsene zitta e appartata. Tuttavia nel silenzio e nel vuoto di ora vi è qualcosa di speciale. Come se la casa fosse realmente disabitata.
L'ospite non solo sembra aver portato via con sé le vite di quelli che l'abitano, ma sembra averli divisi tra loro, lasciando ognuno solo col dolore della perdita, e un non meno doloroso senso di attesa.
Odetta ha l'aria di essere dunque sola in tutta la casa. La percorre su e giù, come cercando qualcosa nel vuoto. Ma sia l'interno della casa che il giardino, sono addormentati, pare, in un silenzio definitivo e impartecipe.
La faccia di Odetta, in queste sue vane esplorazioni, resta però indecifrabile. Anzi: una specie di buon umore (un sorriso furbo e... umoristico, in fondo agli occhi) le deforma i lineamenti, ambigua- mente.
Va in fondo al giardino, raggiunge il punto dove lei e i suoi, sporgendosi oltre la bassa cancellata rivestita di piante rampicanti, avevano visto l'ospite per l'ultima volta, allontanarsi e sparire - e guarda verso la prospettiva della strada vuota.
Cosa cerchi in quel vuoto, non è chiaro. E quel vuoto è più triste, offensivo, normale che mai. Cemento, materiali preziosi, spigoli tetramente liberty, assurde e stente conifere, si allineano in quella lunga prospettiva senza un solo spiraglio di speranza e di realtà.
Odetta osserva sardonicamente.
Poi si rigira sulle punte dei piedi, e, con un passo artefatto e buffo (un lungo passo di gatto stivalato), riguadagna la casa. L'ultimo tratto lo fa quasi di corsa. Ma, arrivata al centro della sala di sog- giorno, si ferma di colpo. E si guarda intorno, stringendo le labbra (sempre in modo assai buffo), e quasi emettendo con le labbra chiuse e tirate, una specie di canto. Resta ferma così a lungo. Poi si muove ancora.
Stavolta va nella camera del padre. Dove però non si ferma che un attimo. Un attimo, il tempo di contare, sia pure con una certa lentezza, fino a tre: uno, il punto dove stava disteso il padre, due, il punto dove sedeva lei, Odetta, e tre, il punto dove veniva a mettersi il giovane ospite. Data quella fulminea occhiata, Odetta scappa, letteralmente scappa, fuori, nel giardino, ma dalla parte dove il padre usava sedersi sulla lunga poltrona di vimini, durante la convalescenza.
Qui il sopralluogo di Odetta è veramente lungo e complicato. Essa osserva il posto dove stava disteso il padre, il posto dove stava seduto l'ospite e il posto dove stava seduta lei.
Non c'è traccia, nell'erba (tornata quasi selvaggia, come nella notte dei tempi) di quelle « antiche » sieste, di quel meriggiare così profondamente goduto, dove rinasceva una vita e nasceva un amore. Ma in Odetta, evidentemente, i ricordi sono vivi e precisi.
Va nel punto dove stava disteso il padre, e, cercando di essere il più esatta possibile, ne misura coi passi la distanza dal punto in cui l'ospite stava seduto; e quindi dal punto dove stava seduta lei. Poi misura, sempre nello stesso modo, la distanza tra il punto dove stava seduta lei, e il punto dove stava seduto l'ospite. Ma non è contenta (fa delle buffe smorfie di scetticismo con la bocca, arricciando anche il naso). Così riscompare, di corsa in casa, e si spinge fino in cucina.
Lì c'è la nuova serva, che, per un caso indubbiamente non comune, si chiama Emilia come la precedente. É una ragazza non più giovane, piccolina (con un viso pallido, distrutto, e grandi occhi pie- tosi). Odetta le chiede un metro, e la nuova serva, silenziosa e pronta, glielo dà.
Con quel metro in mano, trionfante, Odetta ridiscende nel giardino. E lì riprende, stavolta con esattezza millimetrica, le sue misurazioni: interrompendosi solo per fare, soprappensiero, e non senza una punta di umorismo, dei rapidi calcoli. Non manca neanche di fare un risolino fra sé e se.

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