Il padre, Paolo, esce dalla villa, sale sulla sua Mercedes, e prende anche lui la strada, in fondo a cui l'ospite un giorno era scomparso.
Le piazze e i viali si seguono uguali intorno a lui, dietro i finestrini della sua macchina, nel grigiore plumbeo, cui si alterna ogni tanto, proprio nei posti più ostili e anonimi, qualche dolcezza mise- revole di sole. Mal protetto dentro quella sua macchina potente, Paolo va per il centro, cercando. È l'ora in cui egli è di solito al lavoro: e infatti tutta Milano è al lavoro. Ma egli, invece, fuori da ogni regola e da ogni orario, cerca.
Come sua moglie Lucia, Paolo è sceso, e quanto, e con quanta inconsapevolezza, a patti con la vita: e il suo modo, quindi, di perderla, non può essere anch'esso che un patto, sia pure irragionevole e abbietto. Tuttavia gli sguardi di chi cerca, sono sempre uguali, qualunque cosa egli cerchi. E gli occhi di Paolo, nel guardarsi intorno - per quella città che lo vuole uguale a tutti e, per di più, sicuro di sé e prepotente padrone - sono così supplichevoli, così offesi, così ansiosi, che quel patto stipulato con la sua vita, per poterla perdere, ha anch'esso qualcosa di estremista e di puro.
È giunto davanti alla piazza della Stazione Centrale: qui ci sono dei lavori in corso, ed è difficile parcheggiare la macchina. Egli gira intorno, angosciato, infantilmente infuriato (vecchia abitudine) contro tutti gli altri uomini: i meravigliosi inferiori che popolano saggia- mente e inconsapevolmente la vita. Trova infine un buco, vi lascia la macchina. Scende nascondendo meglio che può la faccia contro il bavero del cappotto, intimidito, smanioso, brutale dietro la maschera di una eccessiva calma.
Entra nella stazione, e vaga un po' per gli stanzoni della biglietteria (ha la giustificazione di comprare dei giornali e di consultare il tabellone delle partenze). E intanto si guarda intorno, fingendo di niente, a cercare. Poi, come altre decine e decine di
anonimi che hanno la sua stessa ansia di dignità, va verso la scala mobile, sale, ed eccolo tra gli spazi lattiginosi dell'enorme volta della pensilina. In quel mondo simile a un limbo, l'incertezza di Paolo au- menta, diventa quasi un panico. Dove andare? Come giustificarsi lì, in un luogo dove tutti hanno delle ragioni così precise di essere? Si finge, è vero, un cittadino che aspetta famigliari o amici in arrivo con qualche treno: tuttavia deve cercare, e, quindi girare, muoversi, compromettersi: questa è una cosa più importante della sua dignità.
Il miracolo gli accade, come sempre, quando tocca il fondo: Paolo infatti si trova, ormai disperatamente, nella banchina meno affollata e meno luminosa della stazione - lungo la parete di sinistra, con la sua serie di tristi porticine, fin laggiù, in fondo all'immensa arcata di ferro, dove appare il chiarore del cielo (e il lettore deve accontentarsi di questo accenno, che non dice tutto: ma il nostro è un referto scritto con timidezza e con paura).
I due occhi azzurri di una faccia che si volta guardando sopra la larga spalla, sono quelli di un giovane seduto miseramente su una panchina: forse un disoccupato, che ha lunghe ore da trascorrere da solo, aspettando che qualcosa succeda, o semplicemente un operaio, che aspetta, paziente come un coscritto, il suo accelerato.
Sono due occhi pieni di bontà e di innocenza.
Paolo si ferma, dietro di lui, certo letteralmente tremando. Comincia a sforzarsi di leggere il giornale, e, secondo il piano, ogni tanto, guarda. Ciò che spera è che il ragazzo si torni a voltare. Ma il ragazzo sembra perso in una distrazione di animale assonnato: chissà che pensieri, che prospettive ha nella testa, e in che luogo di sogno si svolge la sua vita.
Passano i minuti, e il ragazzo non si volta; mentre Paolo, alle sue spalle, fa ogni sforzo per continuare a fingersi, magari duramente, una persona quasi severa e rigida, benché un poco inquieta: tanto da non poter trattenere l'attenzione per più di qualche istante sul suo giornale.
I due occhi azzurri, buoni, innocenti, e ora un po' sgomentati - si voltano improvvisamente, e si fermano negli occhi di Paolo: che risponde quasi ostile a quello sguardo, incapace di ogni reazione.
Passano alcuni minuti, molti. Poi, come in un sogno, il ragazzo si alza. Tutto si conclude? Le cose si risolvono così amaramente e con tanta chiarezza?
È alto, robusto (e buono, innocente, anche nelle fattezze del corpo. Sì, un coscritto, coi suoi poveri panni borghesi di ventenne).
Dove se ne andrà, adesso, senza voltarsi?
Piano piano, Paolo si rende conto che si dirige verso il fondo della pensilina (là dove c'è il biancore del cielo), e che non è vero che non si volti: prima di varcare la triste porta, poco lontana da lì, egli infatti, fugacemente, guarda indietro ancora una volta, coi suoi occhi azzurri, carichi di luce, e vuoti di ogni espressione.
Paolo si muove anche lui fa qualche passo nella luce tenebrosa della stazione - va incerto verso quella piccola porta - ma poi si ferma di colpo.
Non entreremo neanche nella coscienza di Paolo - come non siamo entrati nella coscienza di Lucia. Ci limiteremo a descrivere i suoi atti, dovuti - ciò è evidente - a una coscienza già fuori dalla vita.
Come vinto e grato, egli comincia diligentemente a togliersi il bel cappotto leggero, ineccepibile opera di origine inglese - e se lo lascia cadere ai piedi, dove esso si affloscia, come qualcosa di morto e subito divenuto estraneo a lui; la stessa sorte ha la giacca, seguita dalla cravatta, dal pullover, dalla camicia.
Paolo resta così a petto nudo, sulla pensilina della stazione, e la poca gente che gira da quelle parti, nell'ora morta, comincia a fermarsi e a guardarlo. Cosa succede a quell'uomo?
Ormai estraneo a tutto, Paolo continua, imperterrito e assorto lontano, a spogliarsi di quello che ha addosso, quasi egli non sapesse più distinguere la realtà dai suoi simboli; oppure, forse, come se egli si fosse deciso a valicare una volta per sempre i vani e illusori confini che dividono la realtà dalla sua rappresentazione. Cosa,insomma, che fanno gli uomini che qualche fede distacca per sempre dalla loro vita.
Così sopra gli altri vestiti, cadono prima la canottiera, poi i calzoni, le mutande, i calzetti, le scarpe. Accanto al mucchio dei vestiti, appaiono alla fine i due piedi nudi: che si girano, e, a passo lento, si allontanano lungo il pavimento grigio e lustro della pensilina, in mezzo alla folla della gente, calzata, che si stringe intorno, allarmata e muta.
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Teorema
Genel Kurgu2^ parte: Teorema - Pier Paolo Pasolini {Libro NON mio, NON ne detengo i diritti}