-E non fare sbagli, per cortesia.-
Utilizzava spesso quelle parole gentili, cortesi repliche al mio sguardo, che condivano le frasi cariche di veleno, quasi come se ne volesse coprire quelle sillabe di morte. Mio padre aveva aperto quella sua magnifica bocca, aveva lasciato che le sue parole risultassero melliflue, e arrivarono ai miei orecchi come uno dei suoi tanti inflessibili ordini.
-Non desidero doverti picchiare e punirti come un ragazzino, mi vergogno io per te.-
In realtà lui adorava punirmi. Lo capivo da come mi guardava, lo capivo da come le sue mani si sfogavano su di me, di come godesse nel sentire la mia paura, il mio terrore. Ho sempre avuto paura di lui, che con quel viso bellissimo, quei modi di fare affabili, nascondeva una belva che a fauci scoperte era sempre pronta a balzare dalle tenebre.
Come dimenticarsi dei suoi gesti d'orrore ad ogni mio sbaglio? Come dimenticarsi come fin da bambino la sua rabbia diveniva un crescendo?
Iniziava tutto con un:
"Hai fatto quello che ti ho chiesto, Eigil?"
Una domanda inutile: lui sapeva sempre se quello che dovevo fare era stato fatto.
Lui sapeva tutto, io, niente.
Io ci tentavo a mentire, fin da bambino, ma a quanto pare non sono mai stato così bravo in questo, non almeno quanto lui.
Lui sorrideva, seduto sul suo lussuoso seggio, ed io, lì davanti, in piedi. In quei momenti, mai me lo ricordo troneggiare nella sua alta statura, sembrava così innocuo, con le gambe accavallate, il capo piegato lateralmente.
Ma più si andava avanti con le domande, più le sue labbra si arcuavano in un sorriso gentile, e sempre di più eri convinto che alla fine avevi fatto come aveva ordinato, che avevi fatto la cosa giusta. Ma poi improvvisamente si alzava in piedi, il suo sorriso spariva, rimanevano solamente le sue iridi di ghiaccio.
E allora ti poneva nuovamente la domanda iniziale:
"Hai fatto quello che ti ho chiesto, Eigil?"
"Sì." E a quel punto rispondevo con timore, con la bocca secca, il cuore in gola.
E senza batter ciglio, a voce bassa, sempre più bassa e seria chiedeva ancora
"Hai fatto quello che ti ho chiesto, Eigil?"
E a quel punto mi salivano le lacrime agli occhi, specialmente da bambino. Non voleva che piangessi, e lo mandava in bestia vedermi piangere. Non dovevo piangere.
Avrebbe alzato la voce, che sarebbe rimbobata per tutte le pareti, mi avrebbe scosso le ossa fino a distruggerle in tanti pezzettini, avrebbe reso il mio cuore un inutile, grigio relitto, sotto le ossa frantumate.
"Quante volte ti ho detto di non piangere, rispondimi e alza gli occhi!"
Non dovevo piangere eppure lo facevo.
"No." Rispondevo.
E a quel punto si avventava su di me come una perfida vipera: mi acchiappava dal bavero e mi buttava contro qualsiasi cosa avessi al fianco. Aspettava che mi rialzassi per prendermi a sberle in pieno volto: indossava degli anelli, e sembrava metterli solamente in quelle occasioni, come se volesse farmi ancora più male e di proposito.
"Papà, per favore io ho tentato..."
Dicevo sempre, e la sua risposta, fredda, cattiva, che era capace di scioglierti muscoli e ossa era sempre
"Vuol dire che non hai fatto abbastanza."
E a quel punto era lecito riempirmi di botte a seconda di come si sentiva quel giorno. Un giorno poteva preferire la frusta, un altro i coltelli, un altro ancora le sedie, le tazze, i bicchieri, ma adorava specialmente farlo a mani nude, a suon di calci, pugni, sberle.
"Papà ti prego, ascoltami io..."
Non mi rispondeva nemmeno, mi picchiava senza pietà, i suoi colpi erano netti, muscoli che scattavano, che rispondevano agli ordini gelidi del suo cervello. In quei momenti nei suoi occhi, -quando riuscivo ad afferrarli con il mio sguardo, con le mani sulla testa per proteggermi-, scorgevo il come delle bianche nuvole in seguito ad una nevicata, così chiare e al contempo così oscure e profonde; sembrava che delle lingue azzurre si estendessero dall'iride scura. I suoi occhi si lanciavano come i suoi movimenti, potenti, come quelle mani che al contempo tanto tenui, riuscivano ad afferrarmi entrarmi nella carne, strapparmi la pelle, graffiarmi, e uccidermi dal terrore.
Mai mi ricordo che abbia solamente tentato a sfiorare la mia pelle senza quella volontà di uccidermi e di avermi come sua proprietà.
Una volta sola tentai di ribellarmi, gli urlai che era inguisto, che io gli volevo bene, perché lui non me ne voleva?
" Perché mi picchi così? Perché?! Io non voglio fare errori, ci tento, ci provo. Io voglio solo renderti fiero, perché ti voglio bene, ti stimo, perché tu mi fai questo?"
E solo quel giorno aveva fermato la sua furia.
Attraverso i suoi occhi quasi riuscii a vedermi: il mio volto ancora bambino ricoperto di sangue e lividi, il labbro gonfio, spaccato, gli occhi pieni di lacrime. Tremavo tutto, da capo a piedi. Vedevo le mie mani, così piccole, cercare di frenare la discesa prepotente dei suoi arti, il desiderio folle delle sue dita di circondarmi fino a farmi scomparire. E piangevo, quanto piangevo.
"Perché ti educo al mio bene."
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OPHIS
General FictionLa vita è una sensazionale melodia di morte, si può esser musicisti o strumento. Si può scegliere di esser la graziosa mano che si adagia fra le corde, si può esser in balia di quelle mani, che venerate come dee dell'amore, ci permetteranno di esser...