Imparò altro.
Imparò, che oltre Olso c'era un altro mondo rimasto a lei sconosciuto.
Imparò, che Oslo e la sua patria, in realtà, erano il posto al mondo più bello.
Imparò a dire addio, addio a quel pezzo di mondo selvaggio, isolato. Disse addio a Sigyn, ad ogni angolo di quella casa che la aveva accolta, per trasferirsi a Boston, nel Massachusetts.
Sua madre fece carriera, tanto da diventare una star a livello mondiale, e di sua figlia non rivelò più niente in televisione, ma continuò ad utilizzarla come "il volto della sua ispirazione per andare avanti."
Scuse, erano scuse, e a sette anni, Astrid lo aveva capito benissimo.
La madre la costringeva a vestirsi con abiti dai colori sgargianti, la ficcava in macchina, costringendole a lasciare quella sua nuova enorme stanza nella casa americana, e la portava di peso da fotografi, la costringeva a fare provini. Odiava sentirsi dire cosa fare, per rimanere ferma, in posa, per alcuni secondi davanti la macchina fotografica, per essere accecata dal flash, che la abbagliava all'impazzata.
Odiava dover ripetere il suo nome e cognome, a mento alto e con orgoglio davanti alla macchina da presa, e strillava quando qualcuno cercava di toglierle la collana che il padre gli aveva regalato.Imparò che sua madre, aveva tradito suo padre. In casa lui si presentava sempre meno, parlando un poco con lei e strillando molto di più con sua madre, alternandosi alla presenza di un nuovo individuo: Erik Olson. Un omaccione dai capelli rossi, un estraneo che spendeva più tempo del dovuto a casa loro, che mangiava alla loro stessa tavola e si permetteva di trattare Astrid come una figlia.
Presto la piccina scoprì che Erik Olson non era altro che Thor, e che sua madre aveva tradito la sua famiglia schierandosi dalla parte del nemico.
Il disprezzo per la bambina verso sua madre crebbe a dismisura, non le parlava neanche più e tantomeno le rivolgeva uno sguardo, tant'è che Francis Rose si preoccupò tanto da pensare che sua figlia fosse ammalata.
Ma non c'era niente di malato in lei, oltre che un odio sviscerato, verso quell'ipocrita, falsa, frivola figura della madre, che con i capelli perfettamente aggiustati, il solito sorriso raggiante, fingeva che andasse tutto per il meglio. Sapeva perfettamente con chi condivideva le sue giornate, sapeva perfettamente che stava mettendo in pericolo la sua stessa bambina, e se ne infischiava.Le giornate di Astrid erano fatte di silenzi in casa, e di parole velenose fuori, davanti ai compagni di scuola, e poi ancora di sorrisi educati, di risposte così corrette e ben dette da provocare sgomento sui volti dei professori. Era bravissima a scuola, la migliore dell'istituto perfino. La sua intelligenza faceva scalpore perfino ai piani alti, tant'è che alla fine venne inserita nella classe dei bambini più grandi alla sola età di sette anni. Adesso sapeva leggere e scrivere, perciò passava i suoi pomeriggi fra i libri, a studiare, fra i libri di scuola ed i libri che il padre gli regalava. La sua cultura si mischiava alla storia americana, alle materie scolastiche, il suo sapere cresceva sempre più e ne voleva, ingorda, ancora.
Imparò a leggere le rune, imparò a gestire i poteri ereditati dal padre, imparò nuovi incantesimi, nuovi trucchi.
Sua madre era orgogliosa, Erik semplicemente si limitava a sorridere, a posare il suo sguardo su di lei, ma senza dire una parola.
La controllava, Astrid ne era sicura, era lì per ucciderla e portare il suo corpo davanti al padre, Odino, come trofeo di un ennesima sconfitta di Loki.
Thor cercava di corromperla con regali di tutti i tipi, piano piano, cercava di instaurare un rapporto, che Astrid rifiutava. Un giorno si presentò perfino con un pianoforte, enorme, atro, posto al centro del salotto con un nastro rosso.-Ho preso questo, per te.- disse il rosso sorridendo cordiale da sotto la folta barba.
-Non mi interessa.-
-Sai cos'è?-
-Ovviamente so cos'é.-
-E cos'è, allora?-
-Un pianoforte.-
-Brava.-
-Non c'è bisogno di lodarmi. Era una domanda stupida. -
-Potresti impararlo a suonare.-
-No.-
-Ma non hai neanche tentato...-
-No.-E la discussione finì lì.
Ma ricominciò con Francis Rose, che costrinse sua figlia a seguire lezioni di pianoforte. In realtà, alla bambina, quello strumento piaceva molto, ma non voleva suonarlo davanti a nessuno, per questo, sfruttava i momenti in cui la casa era completamente vuota per suonare nel silenzio.
I tasti bianchi e neri della tastiera, molto presto presero il posto della sua parola, tanto da interessare sempre più la figlia di Loki, che incominciò ad allenarsi su pezzi mano a mano più complicati, diventando una bambina prodigio così tanto capace nel suonare quello strumento.
Ma divenne ben presto un nuovo modo per illuminare sua madre di una luce riflessa: presto furono le sue amiche e colleghe a sapere delle capacità della figlia della loro collega, presto la povera bimba venne costretta a suonare davanti a tutti.
Lo faceva senza alcun piacere, ma con una meticolosa precisione, che rendeva il suono eccellente, la composizione magistrale.
Fu in un pomeriggio, quando tutte le amiche della madre erano riunite ad ascoltare le dolci melodie di Mozart, che le dita piccine della bambina riproducevano sublimi, che Francis rivelò con leggerezza-Sapete, io e Erik aspettiamo un bambino.-
Il tempo che quelle parole giungessero all'orecchio della figlia di Loki che quella inciampò in un virtuosismo, le note stonarono una con l'altra, cozzarono violentemente fino ad esplodere nella testa della bambina, risultando come un suono tanto orrendo da far accapponare la pelle. Alzò le mani dai tasti, che scivolarono fino in grembo. L'aria sembrò farsi tesa come le corde nascoste di quell'enorme strumento musicale, la voce della madre le giunse lontana, non decifrò neanche le parole che fuoriuscirono dalle sue labbra, e le martellavano nella sua testa, lentamente, al suono cadenzato di una domanda a cui non rispose. Scese dallo sgabello, semplicemente fece un inchino alle invitate, risultò grazioso ed educato, di un uso e costume passato, ma in realtà voleva essere di provocazione, e andò a rinchiudersi nella sua camera.
Da quella rivelazione, se prima non parlava, distante, ora la bambina sembrava essere solo un vano ricordo in quella casa, rinchiusa nella sua stanza in una condizione di isolamento, o così sembrava.
In realtà scompariva completamente da quella casa, era suo padre a prenderla per mano e a portarla via. Passavano il loro tempo insieme, lontano da tutti. Tornava a sorridere, a giocare con voce squillante, a porre domande al genitore con il tono tipico dei bambini, gli occhi le brillavano di gioia solamente in quei momenti. Quando ritornava in quella casa, non la sentiva sua, la odiava e odiava i suoi abitanti, degli intrusi, diventati quasi tre.
Un ennesimo pomeriggio di una giornata primaverile, fu costretta a suonare ancora, davanti a quel solito pubblico di signore di gran classe, tutte sorrisi e falsità, tutte abili attrici sia fra i set cinematografici, sia fra le scenografie della vita reale.
Tutte si complimentavano con Francis Rose per il suo pancione. Era il settimo mese di gestazione, si era gonfiata, deformata sotto il peso di quella nuova naturale fatica.
Astrid più la guardava più la disgustava: l'aveva tradita, aveva deciso di deformare il suo corpo fino a quel punto, rendendosi brutta con quell'enorme protuberanza che le spuntava sul ventre, con quelle mani gonfie, con quei piedi come due enormi mattoni, quei vestiti enormi che indossava per far risaltare l'enorme pancia. Era orripilata da lei e dalla nuova creaturina, che tutti conoscevano attraverso la pelle tesa della madre: si agitava l'esserino, faceva vedere le sue manine ed i suoi piedini a rilievo sull'epidermide, comunicando con il mondo così, a suon di botte.
Manine e piedini si vedevano perfino attraverso i vestiti, pugni e calci che facevano sobbalzare la bambina dai capelli scuri dalla paura: e se quell'essere avesse ucciso sua madre? Certo, la odiava, ma sua madre era facente parte della famiglia, non la voleva morta, voleva soltanto che smettesse di essere così sciocca, stupida, come suo padre la descriveva.
Voleva quel feto fuori dalla loro vita.
Voleva quel figlio nemico fuori dal ventre di sua madre, ed il padre di quell'essere fuori da quella casa.
Lo pensava mentre suonava le note della Sonata no. 1 in Do Maggiore: non sopportava gli strillii acuti ed eccitati delle amiche della madre che riponevano l'attenzione su quel bimbo ancora non nato, quel germe, quella peste; non sopportava quel feto, non sopportava sua mamma che ora si vantava ancor di più del prossimo nasciuturo.-Avrà sicuramente gli occhi di Erik, ma la mia bellezza.- diceva
- Sarà una bambina, lo abbiamo visto dall'ecografia, abbiamo intenzione di chiamarla Ingrid. Non vedo l'ora di metterle incantevoli vestitini, le scarpette. Deve avere vestiti ancor più belli di quelli di Astrid, dopotutto i suoi sono passati di moda. -Sua madre, avrebbe voluto continuare a sognare, a sognare come vestire la sua Ingrid, di cui non sapeva ancora immaginarsi il visino paffuto, che cercava di vedere già donna e ragazza, ma con il suo viso, con i suoi occhi, a sua immagine e somiglianza, ma fu tutto interrotto: un dolore acuto, liquidi che scendevano lungo le gambe fino ai piedi.
Ci fu una situazione di panico, che constrinse la bambina a voltare lo sguardo verso sua madre, con il viso contratto in una smorfia di dolore, le mani al ventre, le donne intorno a lei che la circondavano, qualcuna che si allontanava di corsa con il telefono in mano."E' colpa mia." Fu l'ultima cosa che pensò la bambina mentre osservava sua madre presa di peso, portata su una barella fino all'interno di un ambulanza. "Ho ammazzato mia madre."
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OPHIS
General FictionLa vita è una sensazionale melodia di morte, si può esser musicisti o strumento. Si può scegliere di esser la graziosa mano che si adagia fra le corde, si può esser in balia di quelle mani, che venerate come dee dell'amore, ci permetteranno di esser...