Esiste la parola per un sentimento immenso, grande quanto l'universo. Lo abbraccia, lo inghiotte, lo graffia, lo morde, lo bacia, lo ammira. Un sentimento che diventa persona, si fa perfino Dio, diventa perfezione, ed inganno perfetto. Ed è una parola così corta, come se andasse detta velocemente, come se andasse scoccata dritta al cuore di un bersaglio mobile, così veloce, come se andasse catturata per non vederla scomparire per sempre.
Amore.
Insignificante, non è vero?
Minuscola, piccola, così corta. Non sembra neanche così importante, così radicata nei corpi dei viventi.
Amore.
Amore.
Amore.
Musica da camera trasportava quella parola, ogni lettera sembrava rimbalzare sui tasti, bianchi e neri. Accucciarsi e scappare dalle dita del pianista, per poi scivolare sotto i tacchi delle belle scarpe degli uomini, insinuarsi sotto le ampie gonne, i vestiti lunghi delle ragazze, che volgevano i loro occhi vispi verso i ragazzi nell'ampio salone di casa Barker, fremitando e scaplitando, fra risate, e bollicine frizzanti nei calici di ognuno.
Paruquet lucido sotto i loro piedi, i biei quadri di famiglia appesi alle pareti, carta da parati con motivi in stile vittoriano; ancora qualche vecchio oggetto d'arredo passato di moda ormai da cinquant'anni sui mobili, sui centrini della mobilia scura, solo qualche vecchia foto in bianco ed in nero. Se non fosse stato per la musica e l'abbigliamento dei commensali e per i lampadari in cristallo illuminati dalla corrente elettrica, non si sarebbe mai detto che si era già nei tempi moderni, nel Natale del 2000.
Auguri, diceva zia Miranda, in quella casa appartenuta al padre, ora sua, mentre sfoggiava il migliore dei sorrisi, giovane, bella.
Auguri, diceva rivolta ad ogni invitato, il bicchiere di spumante fra le mani, i lunghi capelli ramati raccolti in un acconciatura elaborata, un lungo vestito bordeaux, un ampio scollo che ne scopriva le spalle importanti, accentuato da della pelliccia ancor più rossa.
Auguri, diceva quel fuoco acceso d'eternità, si specchiava negli occhi di ogni parente, ed improvvisamente gli auguri divenivano suoi: auguri, buon anniversario della tua eternità.
-Francis, nipote cara.- baciava le guance dell'alta, slanciata figura di quell'attrice di successo, e mai abbastanza per vincere un premio, per primeggiare su tutti. Si comportava scioccamente, la nipote: in un vestito paiettato d'argento, sembrava interpretare la parte della gentil parente, con ampi sorrisi cordiali, e strette di mano tanto delicate. Voleva parer Cenerentola, la timida, mancata principessa, cui però scoccava tutti occhiate di voluttà, aspirante a nuove opportunità per accrescere la sua figura.
Sciocca, scialba, neanche conosceva la storia di famiglia, e se la sapeva aveva faccia tosta a fingere di non sapere che tutti loro erano i maghi dell'inganno, delle doppie facce, i maghi della sopravvivenza. Ma no, si faceva stupida, lei, era furba, era spietata.
Per questo era folle, la preda facile.
-Felice che tu sia qui. E Astrid, dov'è Astrid?-
-E' fuori, arriva fra un secondo...-
-Questa dovrebbe essere Ingrid!-
Gli occhi smeraldo della zia Miranda puntavano ad un ormai ragazzina di tredici anni, i capelli di un rosso vivo, tagliati ad altezza della mascella, gli occhi di un verde fumoso, leggero, delicato. Stelle che formavano costellazioni, puntellavano il suo volto, morbido, piccolo, il corpicino sparuto rinchiuso in un enorme maglione rosso ed una semplice gonna nera. Guardava stanca, nervosa, incattivita la donna davanti a lei, il suo sorriso non si vide neanche per sbaglio. Le sue labbra rosee puntavano verso il basso, le sue sopracciglia si arcuavano verso il cielo come a sminuire quell'affermazione in una domanda: avevi dubbi, razza di idota?
La serpe si era lievemente mossa in avanti verso quel bell'orsetto, ma non appena gli sguardi si incrociarono si ritirò, il suo bel sorriso, quasi vacillò. Cosa non faceva per Astrid in quel momento. Cosa non faceva per lei.
Ospitare sua madre e quella figlia bastarda, peste infetta della famiglia all'interno di questa casa.
Osò allungare la bella mano dalle unghie laccate di rosso verso la giovane, quella si irrigidì, i suoi occhi facevano scintille
-Quanto sei cresciuta, cara. Mi ricordo ancora di quando eri piccina.... ma prego, prendi da bere. Magari una bevanda priva di alcool...-
-Va benissimo dello champagne, grazie.-
Insolente, lo disse ringhiando come un orso, facendo lievi scintille fra le dita.
Sentiva già il resto degli invitati, i parenti di quell'enorme famiglia, lì riuniti, sibilare scontenti, la padrona di casa.
Una figlia di Thor.
La figlia bastarda di Francis Rose.
- Allora sei già una signorina, ma che dico, una signora.-
Si inumidì le labbra, ritirò l'arto dalla pelle morbida e rosea di lei. Quello, compì un ampio gesto verso il tavolo degli alcolici, elegante, gentile.
- Servitevi pure, signora Olson.-
La sua voce era alta, il suo cognome venne scandito a chiare lettere e lucidamente esordiva: cibatevi di questa tenera carne, famiglia mia, perché non porta il nostro cognome.
-Grazie- un ringhio vacillante, lo sguardo di chi era stato colpito nel segno, ucciso nell'orgoglio. Ma aveva fegato, o forse era solo pazza quella ragazza, come la madre: quella alzò il mento, e la superò.
-Ingrid...- mormorò sua madre, seccata, la sua maschera si ruppe sul volto, nervosismo, esasperazione: forse non era un attrice così brava. -Perdonala, è l'età. - si giustificò così, sfoggiando un altro bel sorriso verso la zia.
-Non fa nulla. Piuttosto, prendi anche tu da bere.-
-In realtà volevo parlarti di Astrid, io...-
-Avremmo modo di parlarne in seguito, cara. Magari in tranquillità, dopo l'inizio della cena.-
Si allontanò lesta, la mano che stringeva la magra spalla di Francis, ed essa che rimaneva senza altre parole da poter aggiungere, sola con una marea di angosce di madre, angosce di fallimento e sensi di colpa.
Quanto spesso si confidava con la zia Miranda, svelava i problemi che le annodavano le viscere, parlava, parlava, parlava, e lo faceva per sfogarsi, per rivelarsi a qualcuno. Non sempre i personaggi che andava ad interpretare riuscivano a dire tutto quello che Francis Rose voleva dire, non sempre riusciva a mettersi nei panni degli altri. Mancava di empatia, e pretendeva di imparare ad averla, di rubarla ad altri. Forse non era una vera artista, forse era solo una ladra: rubava l'animo degli altri, e se lo cuciva addosso nel lungo, delicato, elegante, superfluo vestito della vita, virtù e sapienze. Ma era una pessima sarta, e del pezzo di haute couture ne si aveva solo il ben pensiero, e la parvenza di un qualcosa di realizzabile.
-Alice, auguri cara.-
Una donna minuta e bassina, rinchiusa in un taieur grigio, scucito in alcuni punti, i capelli raccolti malamente, con sciatteria, gli occhi scuri, due abissi, spiritati. La bocca di lei si mosse appena, le labbra erano screpolate, accennò ad un lieve sorriso. - Grazie, anche a te, Miranda. E' un piacere ritrovarmi qui come ogni anno...- quelle parole vennero dette con un filo di voce, una vocina tanto acuta da sembrare quella di un cardellino. Aveva quarantadue anni, pareva averne già ottantadue, esattamente gli anni di Miranda.
-Ah, buon anniversario d'immortalità. - aggiunse timidamente e la padrona di casa sorrise appena: non sapeva se era grata di quell'augurio o se fosse pronta a soffocarla con le sue stesse flebili parole. Le rivolgeva uno sguardo ambiguo, pendeva fra la pietà ed un amore tenero, ma superficiale, da usare solo nelle grandi occasioni, falso.
Diventata così solamente dopo una notte di follie con il Dio degli Inganni, diventata pazza d'amore e si era consumata così, semplicemente, la sua bellezza, corrosa dal dolore nel sapere che mai sarebbe stata sua, che era stata solo un capriccio, o un pretesto per avere un altro figlio, altro sangue del proprio sangue.
-Grazie, cara...oh, guarda, guarda, questo giovanotto!-
-Sorella, tanti auguri. - se la mano della padrona di casa era intenzionata a zampettare sul suo volto, Dorian Barker, il figlio di Alice Barker la fermò ancor prima che si alzasse, stringendola alla propria con elegante superiorità, avvolgendo quelle sue dita squadrate e nodose su quelle della zia. Un anello trionfava messo sull'anulare, un serpente in una spira, una chiocciola perfetta, intrappolato nel suo stesso lungo, corpo. -Questa casa rimane sempre la stessa ogni anno, vedo. - fu il suo commento, schietto, ostentato come se fossero parole di assoluta verità.
-E' tradizione, Dorian. Dopotutto, anche tuo nonno rimane sempre lo stesso.-
Cesar Barker, il cugino maggiore di Philip Barker, colui che nel 1910 si oppose fermamente alla decisone del cugino di intraprendere le vie del malaffare, tanto da non rivolgergli neanche più parola. Solo da pochi anni si erano ristretti i rapporti, ed il quadro del padre riappeso alle pareti, dopo che per molto tempo quello spazio vuoto era stato ornato dall'ombra ovale del ritratto. Adesso era tornato in fila fra i volti dei Barker, ma fra tutte le targhette lucide, quella era l'unica avente un lieve strato di polvere, che ne sbiadiva le lettere in oro, facendole sembrar di bronzo.
Una smorfia si dipinse sulle labbra sottili di lui, le mani si ritirarono, passando fra i capelli un po' lunghi, mentre gli occhi risaltavano come due macchie d'inchiostro sopra la sclera.
-Quello è solo uno stupido quadro. Io parlo dell'arredamento. -
Aveva detto capriccioso, la punta alta del suo naso lievemente all'insù si torse lievemente. Venticinque anni e sembrava ancora un fanciullo che sbatteva mani e piedi per terra. Saccente, credeva di sapere tutto di tutti e più di tutti, pretendeva di aver ragione, di avere e basta, senza perché e senza ma, senza spendere neanche una goccia di sudore.
-Oltre alla laurea ad economia, ne hai presa anche una in desing di interni?- rise la sorella maggiore, scosse la testa sinceramente divertita. Quel giovane era uno spasso, soprattutto perché era così convinto di sapere ed essere, quando in realtà era poco più di un granello di polvere.
-Ah, ah, ah, ridi, ridi. - disse lui in un sibilo scontento, si aggiustò il cravattino, stese il tessuto della giacca elegante che portava. -Almeno una laurea io ce l'ho. -
-Si ma non hai senno, è diverso Dorian. - calda e profonda fu la voce che parlò in seguito, la figura, lievemente più alta, di Aster si era palesata alle spalle del cugino. -Un po' come tuo nonno, in effetti. Abbastanza stupido da farsi cacciare dalla famiglia ed andare in banca rotta e vivere da pezzente. - gli occhi lunghi, affilati dei cugini si scontrarono. Fu eclissi di luna: le macchie scure che cercavano di coprire la brillantezza di quegli astri glaciali.
-E tu ancora giochi a cambiar sesso? Forse non sei così capace come credono tutti, forse fra le gambe neanche hai un cazzo vero e proprio. Che razza di sporca invertita.-
-Sempre così scurrile e volgare, Dorian.- il tono della voce di Aster era gelido, così come i suoi occhi, eppure sorrideva, affabile, affascinante. - Se da bambino eri invidioso perché non ti davo confidenze, quest'anno di cosa sei invidioso? Dei miei genitali in mezzo alle gambe o del fatto che sono diventato immortale prima di te?- sibilò mentre le mani lunghe di lui andavano a sfiorare il ciondolo sul collo, quella S di smeraldo. Immortale da due anni ormai, giovane come se avesse ancora diciotto anni, il più giovane ad avere questo privilegio, il prediletto del Tessitore d'Inganni.
Dorian era più basso di lui, le spalle più larghe, il volto più squadrato, i lineamenti più taglienti, bruschi, impulsivi. Era invidioso, sì, Dorian Barker, non sopportava la bellezza del cugino, la sua eleganza naturale, il suo potere innaturale, maggiore del suo, la sua intelligenza, la sua fubizia, il suo tutto.
Invidia.
Corrode come un veleno, fa schiumare pelle e lingua, lacera e squarta, rede nullità, riporta allo stato naturale delle cose: il niente.
-Dorian, basta...- un flebile surrusso provenienti dalle labbra rovinate della madre, che fece avvampare le orecchie ancora mortali di Dorian, la sua lingua scattava come una frusta fra i denti bianchi.
Un sorriso sornione, Aster Barker si piegò verso la donna distrutta dall'amore - Zia cara, è un piacere vedervi. - le prese la mano fra le sue dita lunghe, sottili, come quelle di Loki, posò le labbra su quelle mani consunte, secche, mal curate. Uno scintillio negli occhi della donna, che ora apriva la bocca e rimaneva felicemente sorpresa di quel gesto. Aster, così somigliante al suo amato Loki, sua copia perfetta. Le mancavano le parole, erano tutte scappate a rifugiarsi fra molari ed incisivi, sotto la lingua che formicolava avida di ricordi di baci dati sulle labbra del Dio. Il profumo di Aster come quello del padre, le ricordò i loro corpi avvolti l'uno sull'altro: sabbia e vischio. Inganno e speranza.
Gli abissi oscuri dei suoi occhi si velarono di lacrime, qualcosa, sotto quella follia, si era mosso, immagini sovrapposte che le fecero sussurrare, ormai troppo tardi, parole dolci, quando lui aveva abbandonato le mani di Alice per farsi largo fra madre e figlio.
- Zia Miranda, auguri. - austero, si rivolse poi alla zia, due baci sulla guancia di lei.
-Grazie, Buon Natale anche a te, cara. -
Strinse la mandibola, la sua espressione apatica non venne smossa -Caro, per favore. Dopotutto anche tu mi hai richiesto sotto queste forme. Buon Natale, zia? Cos'è ti fai la croce tre volte come i Semenov?-
Alice sembrò mettersi sull'attenti, storse la bocca, ma rimase zitta. Fu suo figlio a fare le veci dei suoi pensieri - Hai qualcosa in contrario alla religione, Aster? -
-E tu che fai, tradisci tuo padre?- disse stancamente, neanche si voltò a guardarlo.
Cristiano traditore, così come tutti i Semenov.
Ma dopotutto il ramo della famiglia era quello: la bisavola di Dorian, Klavdija Ivanova Semenov, dolce sposa, superstite alla rivoluzione d'Ottobre insieme al suo fratellino più piccolo, Nikolaj, aveva portato avanti il ramo della stirpe Rurijkide. Gli ultimi due discendenti del ramo di Nikolaj Ivanovic Semenov erano due gemelli, di cui neanche conosceva i nomi, i volti.
-Suvvia miei cari, una piccola tregua, che dite? E' bellissimo vedervi litigare, ma devo pur accogliere gli altri.- un sorriso falso, zuccherosa fu la sua voce per coprire il fastidio tutto rivolto al più grande dei fratelli, Dorian. - E in realtà non ti ho mai chiesto di presentarti come Aster. -
Prese il minore dei fratelli per un braccio, lo tirò via, ma quello si liberò dalla sua presa delicatamente, camminò al suo fianco a testa alta. Era sorella, nipote, cugina, ma sorella. Suo padre amava giocare con il sangue, mescolarlo, li aveva fatti come gli dèi: ognuno di loro, troppo puro per mischiare sangue con altri, ognuno di loro, puro e perfetto, come Asi e Vani, che si scambiavano le fedi fra cugini, parenti.
Ma non era vero, lo sapeva benissimo. Erano tutti sangue misto, misto d'amore e ribellione. Si vociferava che il sangue di famiglia di coloro che portavano i capelli rossi fosse misto a sangue celtico.
-Quindi è tutto organizzato.-
-Sì, Aster.-
-E se rifiutassi?-
-Non lo ho voluto io, ma nostro padre. -
-Nostro padre...- sembrò confermare le sue parole e nel mentre smentirle. Le dita sottili di lui zampettarono in tasca, si nascosero. -Ed ha fatto il nome di tua figlia?-
-Ha fatto il nome di Amanda, sì.-
-Non è cosa per me, il matrimonio.-
-Cosa hai detto a tua madre?-
-Con lei non ci parlo.-
-Dovresti.-
-Per dirle cosa, zia?-
-Ti sto parlando da sorella.-
-Non mi importa, puoi parlarmi anche in veci materne, la risposta è la stessa.-
-Dovresti...-
-No.-
Devi.
Dovresti.
Era quel verbo che non gli andava giù.
Forse l'imperativo sulla bocca d'altri.
In realtà era scontento di tutto e di tutti.
Non voleva stare lì, fra la gente, fra la folla, fra gli invitati ad una festa odiosa. Carne della sua carne, sangue del loro sangue, nullità, scarti, tentativi su tentativi della perfezione, che non erano, e che invece incarnava solamente lui. Gente in lotta al trono, il suo.
Gente avida di potere.
Il suo.
In quanti di loro, con quei bei sorrisi, le promesse di famiglia, lo avrebbero tradito? In quanti, sangue del loro sangue, lo avrebbero buttato giù da quel trono?
-E' immortale, come te. - aggiunse la zia che cauta tastava quel terreno, con la paura che potesse caderle sotto i piedi.
Nessuna risposta.
Solamente la calma camminata del nipote, che con le mani in tasca guardava la grande famiglia Barker e ne stava a debita distanza.
Il silenzio.
Il prezzo del silenzio.
Il valore del silenzio.
Non lo imparavano mai i suoi parenti, non lo imparava nessuno.
Credevano tutti che essere figli del dio delle malefatte corrispondesse solamente all'esser loquaci.
Ma c'erano momenti per parlare, e momenti per tacere, momenti per dar sfogo alla mimica del corpo, momenti d'immobilità statuaria.
Tutto doveva scorrere perfetto, diverso ma comunque immutabile.
Il matrimonio non era niente di tutto ciò.
Niente era immutabile con un patto del genere.
Matrimonio, portava via la libertà e costringeva ad un patto inviolabile, sancito con anelli, pompose inutili feste, eleganti ed inutili vestiti, preludio di una sola notte, uomo e donna toccavano, nudi, i cieli del piacere. Il matrimonio legalizzava l'atto naturale dell'amore, lo stringeva in fiochetti e retine di confetti, lo faceva legittimo.
Cosa c'era di tanto scandaloso nell'amare i corpi senza veli?
Dell'amare l'arte della carne, delle forme perfette, l'arte del piacere, del peccaminoso, della gola della carne?
Cosa c'era di sbagliato nell'amare e basta, chiunque, qualsiasi cosa, senza patti, senza feste, senza cerimonie?
La verità è che la gente preferiva sgozzarsi, avvelenarsi, pur di non lasciar sfogare l'amore.
In amorem veritas.
Una piccola felicità, fugace, preziosa, che andava protetta, mostrata solo a chi ne era degno.
In quel mondo sembrava non esserne degno nessuno.
-Dovrete sposarvi il più presto possibile, con il vecchio rito. -
-Quello del Dio che nomini e che poi ammazzi con blasfemia?-
-No, quello dei nostri avi. Spade incrociate ed anelli sulle punte.
Nostro padre sarà presente.-
Silenzio.
-Aster, le rune parlano di un bambino. -
Silenzio.
-Il richiamo d'amore,
spade incrociate,
punte all'aria e giuramenti,
s'incorciano le ossa, le carni, le menti.
Figlio del serpe,
mostra la via alla sala d'oro.
Chiama vendetta il tessitore d'inganni,
su chi a lungo a regnato,
tra spire sangue,
una figlia di Loki a capo,
unica principessa
nella nave d'ossa.-
recitò in un sussurro appena udibile. Le era rimasto impresso, marchiato a fuoco. Si vedeva già, a poppa, carica di gloria.
Camminavano e non sapevano dove andavano. Aster guardava, ma lontano, i suoi occhi erano spenti. Le sue mani si tolsero dalle tasche, ormai vicino al tavolo delle bevande si versò da bere: vino rosso sangue che riempiva un calice fino all'orlo. Ancora mancavano invitati, la lunga tavolata, il grande buffet era ancora privo di pietanze, e gioivano gli occhi del figlio di Loki a vedere quel deserto bianco. L'odore del cibo gli dava la nausea, con orrore sarebbe scappato dalla sala nel vedere le forchette che raschiando sui piatti avrebbero smaciullato il cibo in un orrendo viscido suono, lo stesso che avrebbero fatto le loro bocche, abbracciando la materia fra le lingue, ricoprendole di bava, ingoiandole e portandole fino in gola. Grasso colante, materia adiposa che rendeva i corpi flaccidi, scomposti, colanti: come cera di carne, pelle squagliata, bruciata resa niente, che lasciava solo lo scheletro, spoglio, deforme al peso di tanta materia in corpo.
Materia.
Si modellava, elastica, si creava, non si distruggeva: un figlio era questo.
Materia informe, a crescere dentro un altro corpo, che strappava, rubava vita, bellezza, gonfiava, deformava, distruggeva, ingordo avrebbe preso tutto lui: l'amore, la vita, la beltà.
A che scopo far nascere una cosa tanto immonda, un male tanto grande?
Per il sangue, ed il patto che ci lega.
Per il sangue che è potere e potenza.
Per la famiglia, che è tutto, ma non sé stessi.
Sé stessi.
ll proprio riflesso.
La propria potenza.
Un figlio era un riflesso, il riflesso del padre, il riflesso della madre, il riflesso di un identità.
Ma lui voleva essere unico e solo. Unico ed eterno.
Portò il bicchiere alle labbra, si inebriò dell'unica cosa che riusciva a far passare nel suo corpo, bevve in tutta calma, gli occhi fissi al quadro di Hannibal Barker, il primo abbaiatore.
Non voleva un figlio.
Non lo voleva e basta.
Ma erano ordini ed andavano rispettati.
Era per liberare il padre, ed era una promessa che aveva fatto prima ancora che l'immortalità gli fosse concessa. La sua amata immortalità, tanto voluta per non invecchiare mai, per non mangiare, per poter vivere senza essere schiavo del tempo, del corpo, per poter studiare tutti i giorni e tutte le notti, per accumulare ricchezze, per diventare superiore a tutti, superiore perfino agli avi, ai veterani, ai vecchi saggi. Era potente, era caparbia, era fedele, per questo aveva avuto il suo premio senza molte storie: suo padre sapeva che le sue promesse non erano mai vane, le che sue parole non erano come quelle di Dorian, fatte per riempir di orpelli la sua figura.
-Va decisa la data.-
-Non la ho neanche incontrata.- aveva scostato il bicchiere dalle labbra, le sue parole sputavano veleno, infastidite.
-Non importa, tanto sposerai lei, va mantenuto intatto il sangue. Dimmi solo una data, Aster. Una.-
Impaziente, zia Miranda lo assillava con cura, lo punzecchiava come un tessuto da ricamo. Lei sì che sognava grandi nozze per sua figlia, lei si che aveva concepito con gioia. Immaginava il matrimonio come una gran cosa, con la stessa fedeltà cristiana che diceva di non professare, con gli stessi dogmi. Quanto amava sua figlia, quanto voleva che si sposasse proprio con lui, la perfezione. Quanto voleva che si amassero, quanto lo voleva, quanto lo voleva!
Si innervosì nel vederlo ancora zitto, indifferente, proprio mentre era sul punto di dirgli altro, lui venne attirato da qualcosa, lontano, altrove.
La porta di ingresso all'enorme salone, erano appena entrate quattro persone, davano le giacche alle cameriere si avviavano all'interno della sala, e con cenni e riverenze davano i loro migliori auguri.
Cheslav Sergevic Semenov e sua moglie Raya Danilova Rekimov, ed i loro figli, un ragazzo ed una ragazza, due gocce d'acqua che si tenevano per mano, si guardavano intorno.
Belli come il sole con i loro capelli biondi, quelli di lui ben pettinati all'indietro, quelli di lei sciolti sulle spalle, lunghi ondulati in dolci boccoli di desiderio, iridi come zeffiri. I nasi dolci e da infanti, gli sguardi da adulti, gli zigomi alti, taglienti, gli occhi morbidi, due goccie, le labbra carnose fatte di curve perfette, tagli netti sull'arco di cupido.
-Lo avevo detto a mamma di farti entrare subito.- la vocina ancora da bambina, il sorriso sghembo d'antipatia, le braccia conserte, della birra versata in un bicchiere elegante. Una bevanda così rozza in un calice di vino.
- Se ti vede si mette ad urlare davanti a tutti, ne sono sicura. La farai disperare, per quanto sei invertita.-
Il viso di Aster si irrigidì: aveva ancora gli occhi sui gemelli, zia Miranda si era fatta parte del quartetto per andarli a salutare. Aveva detto lui un "ne parliamo dopo", che neanche aveva sentito. La voce cinguettante della sorella minore gli aveva bucato i pensieri ed interrotto un momento d'estasi.
Abbassò lo sguardo, e si mosse più repentino di lei, prendendole via il bicchiere, nel volto impassibile si riflesse il sorriso di beffa di lei, che andava scemando in un espressione contrariata.
-E' la mia birra! Ridammela!-
-Chiudi la bocca, starnazzi come un oca.-
-Starnazzo quanto voglio!-
Il bicchiere scomparve dalle sue dita, prese la sorella per il bavero, diede le spalle ai suoi antenati appesi sulla destra, agli invitati che distratti non potevano vedere il figlio di Loki, il più giovane immortale, venir stuzzicato dalla stupida sorellina, la bastardella figlia di Thor.
Aveva posato il bicchiere di vino alle sue spalle, sul tavolo bianco. Il camieriere dietro di loro, distolse lo sguardo, prese il calice l' abbandonato, impassibile continuò a fare quello che stava facendo. Chissà a quante cose aveva silenziosamente assistito, e quanto sapeva lui.
-Sei la bastarda di casa, forse non capisci. - la mano che si era appena liberata gli stringeva il volto, le faceva male pur di farla stare zitta. - Qualsiasi cosa che dici o fai, verrai derisa, com'è giusto. Ti parleranno alle spalle, com'è giusto. Sei una bastarda. Non sei mia sorella. Non fai parte della famiglia. Sei la preda fra i predatori. Una parola fuori posto, e giuro che ti ammazzo.-
-Se solo solo una bastarda, perché badi tanto a quello che dico, allora?-
-Perché è mia madre a rimetterci la reputazione.-
-Ce l'ha già rimessa, con un invertita anoressica come te.-
Silenzio.
Ecco, quando le parole non servivano più a niente.
Una sberla in pieno volto. Lei rispose con una lieve scossa afferrandogli il polso. A quel punto più nervoso che mai la afferrò per i collo e la spinse via.
-E la prossima volta non sarà una sberla. - un sibilo che non udì nessuno. Tutti ora guardavano Francis Rose, era lei, che appariscente si avvicinava alle figlie a grandi passi, barcollante sui tacchi altissimi.
-Astrid!-il suo nome detto ad alta voce, non abbastanza da esser urlato, ma abbastanza da essere sentito. -Ti avevo detto niente giochetti! - sua madre, avanzava furiosa in quel favillante vestito. Gli aveva afferrato il polso dell'arto che aveva scaraventato sul volto della sorella. - E non osare picchiare mai più tua sorella!- Ingrid si era nascosta, furba, dietro la madre, aveva gli occhi già sull'orlo di buttar giù lacrime da bambina, e dietro a quel velo di lacrime, guardava il fratello con sfida.
-E' Aster, mamma. -
Il volto di Francis era rosso di rabbia, stava per replicare, ma fu zittita - E guarda tua figlia, ci sta facendo far la figura dei pezzenti. -
Figura, apparenza.
Ecco cosa contava in sua madre: paroline magiche che le avevano fatto perdere il viso di quel colorito rosso di rabbia, in un verdastro di vergogna.
Si liberò della presa della madre, si diresse altrove, l'amaro in bocca, i sintomi dell'ira funesta: i polpastrelli che si sfregavano fra loro, le giunture che venivano fatte scoppiettare sotto la pressione delle dita stesse.
Voltò lo sguardo a sinistra, lì oltre la lunga tavolata nel mezzo della sala, quella che preso sarebbe diventato il tavolo delle pietanze: le donne di casa Barker, tutte mogli, quelle che avevano sfornato i figli per i mariti, le brave che si erano fatte sottomettere e togliere il loro cognome. I dipinti, guardavano gli uomini sulle tele di fronte, e loro distoglievano lo sguardo sugli invitati. Ogni targhetta dei quadri sulla sinistra, portava solo il loro nome e subito dopo, scritto in corsivo "consorte di".
"La bambolina di."
"L'utero di."
"Il giocattolino di."
E che ne sapeva, se gli avrebbero dato quella sorte?
Per questo si era presentato in quelle forme, non solo perché fin in fondo alle sue viscere quel giorno si sentiva così, ma perché voleva mettere le cose in chiaro: donna o uomo, io non sarò l'oggetto di nessuno.
Strofinò nervoso il punto in cui sarebbe dovuta andare la sua fede, schioccò la lingua, il pomo d'Adamo si abbassò e si alzò lungo il collo sottile.
-Aster, vieni! Cercavo proprio te.- zia Miranda, la sua voce festiva, d'adorazione, di quell'affetto di chi vuole qualcosa in cambio. - Ti presento Cheslav Semenov e sua moglie Raya.- Cheslav aveva i capelli già grigi, il volto rigido e spigoloso, come tutti loro in famiglia, era robusto, ma magro, le labbra sottili, il naso dritto, i classici occhi lunghi tagienti. Sua moglie invece era morbida in tutto, gli occhi erano a mandorla, gli occhi grigi, i capelli ancora biondi, bassina. Fu lei a porgere per prima la mano con un estrema gentilezza, una manina delicata le dita corte, paffutelle -Piacere, Aster. - un inglese perfetto, una lieve inflessione russa. La stretta venne ricambiata, sorrise gentile e affabile il figlio di Loki. Cheslav non gli porse la mano, ma fece lui un lieve inchino con la testa, sorridendo anche lui affabile, gli occhi zeffiro si illuminarono, di quella che sembrava, superficiale stima. Al collo di lui un ciondolo che alla moglie non aveva visto indossare: una testa di lupo, due gemme blu al posto degli occhi.
-Questi sono invece Nathasha e Alexander. - i due gemelli ancora si tenevano per mano, entrambi vestiti di bianco, entrambi con i loro ciondoli al collo. Nathasha inclinò la testa di lato, sorrise, con la mano libera si portò un boccolo biondo dietro l'orecchio, mormorò parole di cortesia, e suo fratello la guardava, come se cercasse di carpirne i pensieri.
-Piacere.- lui parlò per entrambi, la stessa lieve inflessione della madre, una voce limpida e da ragazzino, porse la mano e venne stretta da Aster. I due si guardarono per un lungo momento prima di lasciarsi la mano. Erano stupendi, due creature spuntati su dalle stelle. E anche loro nel guardare Aster pensavano lo stesso: così bello che deve esser figlio della luna.
-Avete fatto un viaggio lunghissimo. - disse improvvisamente una voce stridente, da infante.
Dorian si era infilato fra loro, guardava tutti a mento alto, e le labbra tese con arroganza, petto in fuori e braccia che si muovevano in gesti plateali. - O almeno immagino. -
-Immagini male. - rispose Aster tranquillo, pacato. Le mani si unirono in grembo, per poi dividersi, nascondersi in tasca. La sua lingua passò lenta sul palato - E' l'unico ramo della famiglia insieme ai Derèseau e l'unico discendente diretto di Ivarr Vidfamme, Olav Noskilosson ad aver ricevuto il dono di creare portali senza problemi. -
Dorian aprì la bocca per ribattere, le sue sopracciglia scure si stavano già preparando a dar sfogo alla sua inutile mimica facciale, quella che non aveva mai imparato a controllare a dovere, quando improvvisamente tutti scoppiarono in un applauso.
La scintilla di quella discussione finì lì, era entrata, finalmente pronta, la figlia della padrona di casa, in un lungo abito verde, gli orli del vestito ricamati con ghirigori di un verde più scuro, i lunghi capelli rosso fuoco sciolti sulle spalle, boccoli leggiadri, come spire di fuoco.
-Bel vestito. - disse Nathasha.
-E' bella anche lei.- rispose sua madre.
"Mai quanto voi."
Zia Miranda lo chiamò da lontano con un cenno del capo. Amanda si stava godendo i complimenti, leggiadra, ringraziava il prossimo, i suoi due smeraldi incastonati fra le orbite, brillavano ed illuminavano il volto di chi le rivolgeva parola.
Non appena la fanciulla alzò lo sguardo su di lui, il suo fidanzato, futuro sposo, rimase per un lungo, interminabile minuto, nel più totale silenzio. Fissava i suoi occhi e non riusciva a staccarsi da quei diamanti, quegli specchi, quei gelidi pezzi di ghiaccio, vuoti, distanti. Si rifletteva il suo amore, quell'improvviso amore infantile, quello che va a guardare la patina della bellezza.
-Mi ricordo di quando eri una bambina.-
Si era dimenticato che in realtà Amanda aveva vissuto fra epoche diverse, si era dimenticato, tanto la sua giovinezza, di quanto sapesse. Si diede dello stupido. Nell'immortalità non si ci concedono errori.
"Penitenza." Mormorò una voce profonda nella sua testa.
"Penitenza."
"Non vengono concessi errori e lo sai."
"Penitenza."
-Aster. - disse gelido lui - Per adesso sono Aster, ti prego di chiamarmi così.-
-Mi ricordo quando giocavi con Dorian.-
-Il passato è passato.-
-Mi ricordo che litigavate sempre.-
-Non è cambiato. -
-Neanche tu.-
Quell'affermazione lo spiazzò. Cosa aveva visto negli occhi di un infante?
-Ma tranquillo, non cambierai mai. - le labbra si stesero dolci, afferrò le sue mani, le strinse. - Lo dicono le rune. -
Il ramo della famiglia che leggeva le rune e ne prevedeva il futuro. Il ramo della famiglia che aveva avuto il potere più strambo, più assurdo. Proprio loro, quelli che si dice siano discendenti di una dea celtica.
-Bene!- era entusiasta Miranda, da sorella, da madre, da amante dei romanzi d'amore, quella che leggeva il futuro, ma non si fermava mai troppo a leggere il presente, che viaggiava con la mente, senza in realtà, andare da nessuna parte.
- Diamo inizio al buffet!-
*
Cibo.
Cibo veniva riverso nei piatti: rustici, insalate, salse, salsine, stuzzichini.
Materia che veniva posata nei piatti, dai piatti passava alle bocche, e le bocche schifosamente uccidevano prive di grazia.
Non bastava quella tortura, non bastava una tavolata soltanto, avevano dovuto costringerli, a star seduti, uno di fronte all'altro in una sala attigua, dicendo addio ai loro antenati, ancora, di nuovo. Aster aveva rivolto loro un ultimo sguardo sofferente, e loro lo guardavano pallidi e severi.
"Sei troppo viziata." Le aveva detto una volta zia Miranda.
Da che pulpito.
Aveva sbattuto i piedi e si era messa le mani nei capelli pur di avere quella casa. Ed ecco, ora era sua. Lei era viziata perché non ficcava il cibo in bocca.
Che capriccio, non è vero?
Eppure nessuno capiva l'orrore nel vedere ogni pietanza smaciullata, portata alla bocca. Il rumore viscido del cibo spezzettato, su cui loro sbavavano. Un immondo istinto primordiale.
Aveva seguito gli altri, aveva seguito il flusso di quelle teste nere, bionde, rosse, castane, ma sempre di un passo dietro Amanda, che euforica saltellava fra gli invitati nel suo bel vestito verde, piroettava su se stessa, si mostrava in tutta la sua bellezza.
-Ti piace il mio vestito?- le aveva chiesto, mentre attraversava la soglia della nuova sala. Enorme, ancor di più della precedente: una tavolata, lunga lunghissima, perfetta nella composizione, con i centro tavola rossi, sopra di esso un enorme lampadario. In fondo alla stanza un camino, sopra di esso una ghirlanda festiva e celebrativa di quel natale. Tutt'intorno, ad incorniciare i quadri altri festoni, altre ghirlande.
-Molto.- aveva risposto lui, freddo.
-Dici così solo per farmi star zitta?-
-No, sono sincero.-
-Bene, perché non è neanche il mio colore preferito. Lo ho fatto fare per farlo piacere anche a te.-
La sua mano si strinse in quella di Aster, e lo trascinò, euforica, fino ai propri posti.
Intrappolato fra sedia e tavolo con davanti un piatto.
Era una tortura.
Lanciò un occhiata a zia Miranda, che si era posta, in piedi, capotavola. Il calice colmo di altro champagne.
Odiava lo champagne.
-Auguri a tutti, auguri alla nostra splendida famiglia.
Skàl!-
-Skal!- dissero tutti in coro.
Il calice si sporse verso tutti, si soffermò poi in direzione di Aster e sua figlia, infine bevve, con un sorriso a fior di labbra, ed una volta che si sedette, tutti gli altri, fecero lo stesso.
Armi di porcellana, veleno su manici in metallo, acido nei bicchieri di cristallo. Lui composto, con le mani in grembo, guardava quell'enorme tavolata, respirava cauto. Gli occhi gelidi fissavano il bianco, i fiorellini blu che si attorcigliavano sulle stoviglie. Amanda parlava.
Parlava troppo.
Alzò lo sguardo, di fronte a lui i due gemelli, che si erano appena accomodati con garbo. Quanto erano incantevoli, Nathasha nei suoi modi di fare, in una vanità sincera, un ostentazione naturale della sua bellezza. Alexander che composto, gli occhi ridenti di furbizia, i modi da gentiluomo, le mani sicure di chi è fermo nelle sue decisioni. Si toccavano, si sfioravano con amore. Non erano solo fratello e sorella, erano vita condivisa, erano lo stesso corpo diviso in due testoline, lo stesso corpo diviso a metà. Bianchi come due angeli, adesso si portavano il tovagliolo di stoffa alle ginocchia, si guardavano intorno, solo Alexander guardò dinnanzi a sé gli occhi glaciali del cugino.
Diamanti e zeffiri.
Un sorriso a mezzaluna, teso da entrambi nello stesso istante, gli occhi di entrambi si abbassarono. Un gioco di sguardi e parole non dette.
-Есть свободное место.-
(C'è un posto vuoto)
Sussurrò Nathasha sporgendosi verso la sua identica dolce metà, che voltò lo sguardo verso quello della sorella, insieme, sporti di profilo guardavano quella sedia vuota, fra Ingrid ed uno dei figli più piccoli dei cugini Deréseau, Davìd, il ramo di famiglia francese, sangue diretto di uno dei figli di Luigi, il bastardo di Carlo V.
-Это должно быть от другого нашего родственника....-
(Deve essere di un altro nostro parente....)
- Да вот и все- li interruppe Aster, le due teste bionde si voltarono all'unisono verso di lui.
(Sì, è così)
Erano stupiti. Parlava il russo?
Austero, seduto su quella sedia, a stringergli il bel corpo longilineo, continuò tranquillo - E' di Olav Noskilosson. Non si presenta quasi mai, ed io con lui. -
-Non amate il Natale, per caso?- aveva chiesto Nathasha, muovendosi sulla sedia, provocante in ogni semplice naturale gesto.
-Magari non ama la compagnia.- continuò Alexander, che piantò i gomiti sul tavolo, la bella giacca bianca che si confondeva con la tovaglia, le mani lunghe ampie, morbide, si intrecciarono per mantenere la testa dai biondi capelli come l'oro.
-Non amo il cibo.- spiegò tranquillo, dopo aver schiuso le labbra ed aver sorriso con piacere a quei modi tanto ipnotizzanti.
-Quindi tu sei quello che non mangia?- schietta, la Semenova arrivò dritta al punto. Aster annuì.
-Devi aver coraggio, a non mangiare.- continuò Alexander
-Certo, tu sei un pozzo senza fondo. -
A quel punto Alexander si mise dritto, diede un pizzicotto alla sorella, la guardò male - Non farmi sfigurare. -
- Что случилось, тебе нравится наш двоюродный брат?- mormorò lei avvicinando il viso in una smorfia provocatoria verso quello a sua immagine e somiglianza.
( Perché, ti piace nostro cugino?)
- Не ты?- ( A te no?). Un sorriso d'intesa. Le toccò la spalla in una carezza piena di un sentimento così puro difficile da esprimere a parole. Ma lei scostò il braccio, alzò il mento e disse
-Mi rovini il vestito così. -
- Мне нравятся оба.-
(A me piacete entrambi.)
Furono le ultime parole che riuscì a rivolgere ai gemelli, che si voltarono all'unisono per guardarlo ancora. Si erano dimenticati, che lui li capiva.
Amanda, alla sua sinistra, li osservava e non capiva, ma comprendeva gli sguardi.
-Aster tu non bevi lo champagne?- ecco che si infilava in mezzo, dolce affabile. Ricordava a tutti quale era il suo ruolo. Amanda, colei che deve essere amata, e deve essere amata da Aster Barker.
-No, a lui non piace.- si immischiò Dorian, seduto alla destra dell'immortale. Un ghigno, gli occhi scuri che luccicavano di goduria al solo sentirsi parlare. - Lui beve solo vino, neanche acqua, l'invertita, non è così? A no scusa, invertito. -
-Finiscila, Dorian.- sbottò Amanda, troppo dolce perfino nelle minacce: aveva fatto il broncio, le belle labbra rosee, carnose, si erano sporse verso il basso.
-Ma è la verità! Non vuoi forse questo tu, Amanda? Sei la dispensatrice di verità, la nostra piccola Cassandra personale, con tutte le tue articolate profezie, le tue inutili fandonie.-
-Non sono inutili fandonie.- aveva sibilato lei, le guance rosse, gli occhi pieni di pianto, che saettavano dalla figura del cugino a quella del suo fidanzato, che però, rimaneva impassibile, gli occhi gelidi fissi in avanti, su Nathasha, su Alexander, che ascoltavano, ma non guardavano i due che si accapigliavano. Volevano vedere come avrebbe reagito il serpe stuzzicato, ma rimaneva impassibile, le mani sotto il tavolo, il volto in una maschera d'apatia.
-E' inutile che lo guardi, fa così, lei. Sta zitta e non ti parla.-
-E' Aster adesso.-
-Lei è Astrid, è inutile che si nasconde dietro vestiti da uomo e dietro trucchetti più vecchi di noi che sanno tutti.-
-Non è vero che lo sanno tutti.- rispose Amanda - Tu non sei in grado neanche di far lievitare qualcosa.-
-Perché tu ne sei capace?-
E a quel punto si zittì. La rossa si morse il labbro.
Immortale, ed era ancora una bambina.
Immortale e l'unica cosa che sapeva fare era dispensare buoni consigli, sperperare verità che tutti credevano bugia, parlare di profezie che non ascoltava nessuno.
Nessuno.
Tantomeno loro padre.
Alzò il mento vittorioso, Dorian. Alzò il mento e si lasciò servire la prima pietanza, che i camerieri adagiavano sotto i musi dei commensali.
Anche sotto il volto perfetto di Aster.
Ticchettio di posate.
Cibo infranto.
Mandibole che si aprivano e chiudevano come tenaglie.
Materia smaciullata, impastata di unta, bavosa saliva.
-Dai, Aster, mangia qualcosa.- erano parole più dolci che Amanda cercava di pronunciare al suo promesso sposo.
-Guardalo, ora sviene davanti ad un antipasto, il grande Aster.- sibilò Dorian, un serpente che si attorcigliava sulle proprie spire.
"En, to, tre, fire..."
Contava Aster, a fior di labbra ogni numero nella sua lingua natia, il norvegese, usciva come piccoli sbuffi di fiato dalla bocca schiusa.
Non doveva perdere la calma.
Contegno.
Si affidava al suo gelido contegno, alla sua perfetta compostezza.
"...tjuefem, tjueseks, tjuesyv."
Dorian parlava, e neanche più lo ascoltava. A petto gonfio buttava giù parole, la sua voce gracchiante ed infantile, era peggio dell'odore del cibo, che gli ostruiva la gola, lo faceva soffocare.
"Femti."
Cinquanta.
Era abbastanza, ne aveva abbastanza.
-Torno fra un attimo.-
buttò il tovagliolo sul piatto, corpì la vista della pietanza, si alzò austero dalla sedia. Chi stava parlando degli adulti, smise di farlo. Lo videro percorrere a passi larghi tutta la sala, fino alla porta.
-Aspetta...- Amanda stava per abbandonare il suo posto, sua madre, alla sua sinistra la fermò per un braccio, in un cenno la riportò seduta. I due gemelli lo seguirono con lo sguardo. Dorian invece mangiava, avido, goloso, mangiava, mangiava e sogghignava.
Le mani lunghe, affilate, strette alla maniglia, aprì la porta deciso, ma qualcun altro lo stava per fare prima di lui.
-Quindi è qui la festa.- occhi identici ai suoi, capelli spettinati, di un caldo color nocciola, alto quanto lui, le spalle più larghe. - Ah, a proposito, auguri per il fidanzamento. -
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OPHIS
General FictionLa vita è una sensazionale melodia di morte, si può esser musicisti o strumento. Si può scegliere di esser la graziosa mano che si adagia fra le corde, si può esser in balia di quelle mani, che venerate come dee dell'amore, ci permetteranno di esser...