Sbattei la testa su una superficie di legno.
Qualcuno premeva la mia faccia sul legno lucido, dove potevo vedere rispecchiati i miei occhi. Gli occhi di Amanda, come aveva detto la zia. Gli occhi del pallido terrore, dell'oscuro inconscio, delle decisioni fatte senza pensare, del dolore e del silenzio sommesso.
Erano gli artigli di mia madre, quelle mani sottili, ossute, delicate, che premevano la mia faccia sulla superficie. Ero seduto scomposto su una sedia, che barcollava alla mia precaria stabilità.
Ero pronto a sentire la sua rabbia, quella che scatenava tremenda su di me verso chiunque essa fosse rivolta. La sentivo scorrere, dalla punta delle sue dita fino all'epidermide che proteggeva, solo all'apparenza, il mio viso: mi entrava fino alle ossa e me le crepava, una per una.

-Ti avevo dato un compito solo. Uno.-
-Mam--...-
-Zitto!-

Ancora più forte fu la pressione, sembrava volesse rendermi parte del tavolo, un oggetto. Forse era così abituata a trattarmi così, che a volte perfino si scordava che ero già il suo giocattolino nelle sue belle mani da tessitore. Avevo paura che con un'altra sola parola la sua rabbia sarebbe caduta su di me come un enorme macigno, aprendomi il cranio in due. Forse però, almeno per una volta, avrei cessato di esistere.

"Vedi, tua madre non ti odia." Mi aveva detto tanto tempo fa mia nonna, quei pochi secondi che abbiamo potuto spendere da soli. Mia madre non me lo concedeva mai, diceva sempre che la nonna era una stupida, arrogante, bambina viziata.
"Il suo è un modo di dimostrare affetto. Anche con me era così,mi ha sempre rispettato, amato ed odiato, per quanto assurdo possa sembrare. Io ho sempre cercato di darle un futuro. Crede che abbia fatto entrare Erik in casa per vendicarmi di suo padre, ma non è così. Lo avevo fatto per portarla dalla parte giusta, per estirpare quella brutta influenza che il padre aveva su di lei. Volevo vederla ridere, giocare con gli altri bambini, capisci Eigil? Lei ti ama, ma ha questo modo tutto suo di dimostrarlo."
Ricordo che mi stringeva forte a sé, la nonna. Mi aveva abbracciato e mi aveva mormorato quelle parole all'orecchio, le nostre guance si sfioravano appena. Sapeva di zucchero, di caramelle gommose, un odore tanto forte che copriva come un altro profumo, aspro: limone.
"Non è stata colpa mia. Non si ordina all'amore, quello fa di testa sua, Eigil. Capisci?" le nostre guance si bagnarono di una sola lacrima rotolata giù dall'occhio di lei. Si era giustificata con me, e più parlava più le parole le sembravano morire in bocca tanto che cercava di sussurrarle. "Mi sono innamorata di Erik, ma non è stata colpa mia. Non avrei voluto, sapevo le avrei fatto un torto. Mi incolpa di averla rinchiusa in quel Centro, ma lei non mangiava, ero disperata. Mi incolpa di averla portata alla scuola privata, di averla privata della sua libertà, ma volevo un ambiente sicuro per lei. Mi ha sempre rinfacciato che quel posto le ha rinsecchito i neuroni, succhiato via il sapere. Io so benissimo che lei studiava da sola, che lei era capace di tutto, ma..." proprio mentre il suo tono sembrava rinsavire, mia madre mi aveva strappato dalle sue braccia con il solo ticchettio dei suoi tacchi sul bel pavimento della sua casa d'infanzia.
"Hai finito?" aveva detto mia madre. Francis Rose, aveva scostato il viso dal mio. Era bello il viso di mia nonna, gli zigomi pronunciati, le labbra dalle forme nette, gli occhi grandi, smeraldi alla luce, all'oscurità neri come la pece, il naso rotondo, dolce nelle forme. E quella bellezza non era deturpata dai segni del tempo, le piccole linee di carne sotto gli occhi e agli angoli della bocca, bensì da un espressione sconsolata, ferita.
Nei suoi occhi però luccicava come la menzogna a tutte quei tristi sentimenti. Aveva annuito, mi aveva lasciato andare.
Ogni volta che ripensavo alle sue parole non sapevo se crederle o meno.
La maggior parte delle volte, ero in completo disaccordo.

Le dita di mia madre mi presero per i capelli, rabbiosa, mi alzò la testa. Respirava in lievi sibilii, tanto lievi da sembrare non esistere sul serio.
L'altra mano libera si chiuse in un pungo, sbattendo violentemente sul tavolo. In reazione a quel gesto carico d'odio, un enorme libro verde comparve davanti a me, poi una serie di documenti, un plico dietro l'altro, da dove era riconoscibile la scrittura elegante, piena di ghirigori, e nette lettere affilate di mia madre.

-Leggili, tutti.
Studiali.
Devono entrarti in quella maledetta testa, uno per uno. Non osare scollarti da quella sedia.-

La mano stretta intorno ai miei capelli lasciò la presa, la figura di mia madre sparì improvvisamente. Era rimasto solo l'eco della sua voce profonda, inquisitoria, aspra.
Rimasi in silenzio con il fiato sospeso.
Niente di niente.
Era sparita, semplicemente.
Avevo voglia di piangere, ma i miei occhi erano aridi di lacrime.
E perché volevo piangere?
Per la paura?
Per quello che avevo appena scoperto?
Di gioia?
Mi misi dritto in tutta calma, il più silenziosamente possibile.
Persino lo sfrusciare dei miei stessi vestiti mi terrorizzava, la mia stessa ombra in quella stanza che riconobbi solo molto dopo, con il cuore che ancora sbatteva violento contro costole: lo studio privato di mia madre.
Il mio petto si alzava e si abbassava, le mie mani scorrevano veloci, nervose, sul tessuto dei miei vestiti. Quel silenzio assordante era peggio delle sue parole di rimprovero, peggio delle sue mani sul mio corpo.
Non sopportavo quella calma, che spesso era preludio dei peggiori castighi.
Preferivo rimanere sospeso al filo del terrore, in bilico su esso, e guardare il buio profondo sotto i miei piedi, nella consapevolezza che da un momento all'altro sarei caduto irrimediabilmente, scomparendo, dimenticato da tutti nel buio più totale.
Dopotutto la felicità è effimera, e si sa, per certi versi, più spaventosa dell'angoscia in sé: non sai mai quando finisce, fino a quando puoi godertela.
Alzai lo sguardo, finalmente misi a fuoco la stanza, dove solo una volta avevo avuto l'onere di metterci piede. Lo avevo fatto senza il permesso di mia madre, di nascosto, di notte, nascondendomi fra le ombre. Non toccavo niente, guardavo e basta. Guardavo ogni libro in quella camera, fra gli scaffali scuri, ne leggevo i titoli, li mormoravo a fior di labbra lasciando che essi potessero incollarsi fra le mie rosee pieghe di carne. Mia madre si infuriò con me, in un primo momento non ricordai neanche il motivo, ma improvvisamente, lasciando che le mie pupille ricadessero su ciò che avevo davanti mi tornò tutto alla mente: avevo osato toccare proprio quel libro, verde smeraldo. Le mie dita paffute, ingenue, avevano seguito all'epoca i tratteggi a rilievo dei due serpenti che si intrecciavano, e la runa, che subito sotto di essi era incisa con grazia, la stessa che la zia Miranda portava con orgoglio, ben appuntata sui vestiti. E altri simboli agli angoli del volume: una testa di lupo, un serpente che si attorcigliava in una chiocciola, un ragno che tesseva la sua tela ed un albero capovolto che ardeva, richiuso in una lingua di fuoco.
Allungai le mani, il petto che si alzava e si abbassava con affanno, fatica, timore, avvicinai il libro ed infine i documenti.
Aprii il volume, il titolo spiccava a grandi lettere nella prima pagina, lo stesso che aveva ognuno di quei documenti:

FAMIGLIA BARKER.

OPHISWhere stories live. Discover now