Non sbagliare.
Non sbagliare.
Cammina dritto.
Cammina con eleganza.
Cammina con portamento.
Cammina.
Respira.

Sentivo l'ultimo tocco di mio padre, le sua dita affusolate che si erano abbassate con violenza lungo la mia spalla, e che si erano posate con una tremenda delicatezza. Mi aveva aggiustato le vesti, mi aveva guardato un ultima volta, sottoponendomi alla sua perfezione.
La cravatta mi stringeva la gola, una cravatta nera, lugubre. La odiavo.
Mi soffocava il gilet sotto la giacca, mi sentivo stretto in quei vestiti eleganti, degni di mio padre, ma non meritevoli di me.
Incedevo a  passo marziale, il suono dei tacchi delle scarpe che era simile a quello di mio padre, magari più incerto, titubante. Passavo fra gli uffici, guardavo i dipendenti con lo sguardo freddo, vuoto di mio padre: ma a chi volevo prendere in giro?
Mi rispecchiavo negli occhi di quei poveracci, che giorno e notte lavoravano per lui, dietro gli schermi di enormi monitor. Loro che al posto di mio padre e più di lui, mantenevano in piedi quell'enorme edificio, che con il suo cemento toccava il cielo, si levava imponente su New York. I telefoni squillavano in continuazione, un suono capace di entrarti nelle orecchie, distruggerti.
Tutte quelle persone, aspiravano a toccare il cielo con un dito, aspiravano ad essere mio padre: broker, impreditore, miliardario, potente. Cercavano di soddisfarlo come potevano, era una gara a chi aumentava il numero degli zeri fino all'infinito, a chi riusciva a portare più maledetti fogli di carta verdi e rettangolari sulla scrivania di mio padre, in quell'ufficio, lontano dai dipendenti, lontano dai rumori, lontano da quei poveri stolti che credevano di poterlo far contento.
Io ero come loro.
Cercavo di farlo contento come potevo.
E tutti loro, che alzavano la testa nella mia direzione, con gli occhi rossi, i solchi scuri sotto le palpebre, mi odiavano, erano gelosi: tutti avrebbero voluto essere figli del signor Barker, e nessuno ne sapeva le conseguenze.
Stinsi la mandibola, alzai il mento, feci un cenno a tutti loro che avevano voltato la testa verso di me:

-Tornate a lavoro.-

Lo dissi duramente, il tono della voce era uguale a quello di mio padre, lo emulai, ci tentai. Ma distolsi lo sguardo con troppa fretta, lo sentii, lo percepii. Sentivo già i ghigni alle mie spalle.
Avevo fallito, ancora, di nuovo.
Portai le mani al collo della camicia, nervoso, infastidito.

Fallito.
Stupido.
Vai, cammina.

Sorpassai altri uffici, risposi ai buongiorno, che mio padre pretendeva e a cui non osava rispondere se non con un cenno del capo.
L'ultima sala, ecco dove dovevo entrare.
Dovevo discutere d'affari, sulle mie spalle c'era il peso di milioni, miliardi. Mio padre mi aveva dato l'onore di presiedere al suo posto, di decidere cosa fosse meglio per l'azienda, ed ero terrorizzato. Le budella mi si contorcevano ad ogni passo, più mi avvicinavo alla porta in vetro, elegante, imponente, più mi chiedevo se quello non fosse un ennesimo, sadico, scherzo di mio padre.
Era sicuro che sarei stato capace di portare il tutto a termine?

"E non fare sbagli, per cortesia."
"Non fare sbagli."
"Non sbagliare."

Portai la mia mano alla maniglia, il gelo del metallo mi pervase: erano tutti in cerchio, uomini anziani, due giovani donne vestite di rosso, gli sguardi bassi su fogli, carte. Aspettavano il signor Barker, non il signorino Eigil Kol Barker.
Di scatto aprii la porta, quelli al rumore della maniglia si alzarono, composti, rispettosi, pronti ad accogliere il grande uomo d'affari, e vidi sui loro volti lo stupore, l'incredulità, la parvenza di una risata di ludibrio.
Un ragazzino, un inetto.
Deglutii, non ebbi il coraggio di guardarli in faccia, non subito. Alzai lo sguardo su di loro quando mi sedetti a capo della tavola rotonda.

-Mi scusi, dov'è il signor Barker?- disse uno dei più anziani lì dentro, lo disse con cautela, ma la sua voce mi risuonò comunque beffeggiante.

-Indisposto.- risposi posando entrambe le mani sul tavolo di cristallo, mi avvicinai alla superficie, mi trascinai come un povero fallito.

-Indisposto?- chiese un altro, dagli occhiali quadrati sulla punta del naso aquilino.

-E' forse sordo?-

-No, io...-

-E allora non ponga domande fuori luogo.-

Silenzio.
Sentivo solamente il mio fiato.
Ebbi la consapevolezza di esser riuscito nel mio intento, forse potevo essere come mio padre. Lui avrebbe risposto così, no?

-Lei è Eigil Kol Barker, dunque. – disse una delle donne, bionda, longilinea, bella.
-Vostro padre parla molto di lei.-

Che bugiarda.
Non fiutavo le bugie, non ne avevo mai avute di queste capacità, ma quella donna era una pessima bugiarda, quasi quanto me.

-Davvero?- dissi poco convinto, la voce che era come il cadavere, putrefatto da tempo, della mia speranza.

-Sì, davvero.-
-Bene.- conclusi. Le mie dita si intrecciarono l'une con le altre, lunghe, sottili, come quelle di mio padre, meno graziose. – Quindi, possiamo...-

-Signor Barker...!- fui irrimediabilmente interrotto. La segretaria, trafelata, brutta, bassina, gli occhiali rotondi di un pessimo colore. Mio padre la aveva accolta per pietà, la reputava stupida, inutile, incapace di soddisfare perfino i piaceri più bassi, con quella sua voce gracchiante, quel suo fisico aberrante.
Vacillò sui suoi stessi, vertiginosi tacchi, che mio padre aveva ordinato lei di indossare. La poveraccia dopo un mese, ancora non aveva imparato a star stabile su quegli strumenti di tortura.
- Signorino Barker...- si corresse, veloce, sorpresa. Calò la sua guardia, sembrò parlarmi facendo un sospiro di sollievo. Neanche ad una segretaria brutta ed insulsa riuscivo ad incutere il senso dell'ordine, del potere. – Mi scusi il disturbo, dovrebbe venire subito perché...-

-Arrivo.- mi alzai, la interruppi. Bastavano e avanzavano quelle poche parole per mettermi in ridicolo. Uscì a grandi passi, qualcuno della riunione sembrò volermi fermare, disse qualcosa, non risposi, codardo, vigliacco, diedi loro le spalle.
Se le mie budella si erano rivoltate dal terrore di sbagliare cinque minuti prima, ora si disintegravano consapevoli delle conseguenze.

-C'è una donna, richiede urgentemente di vostro padre.-
-E' indisposto.-
-Cosa le dico allora?-
-Non le dica niente, vado io. -
-Non vuole che lo avverta...?-
-No, grazie. Come si chiama?-
-Chi, signorino?-
-La donna, ovvio.-
-Non lo ha detto.-
-Avete fatto entrare una donna nell'ufficio di mio padre senza chiederele il suo nome?-
-Signorino io...-

Già avevo finito di ascoltarla.
Già mi preparavo ad uno scontro con mio padre.
Mi portai le dita agli occhi, li strofinai come a volerli togliere dalle orbite, me ne andai, dritto, di corsa, verso la stanza di mio padre.
All'ultimo piano di quel grattacielo di cristallo, lì era la sua stanza.
Corsi, arrivai fino alle ampie porte di un bellissimo color ciliegio con il fiato grosso, la gola secca di preoccupazione. Si strinsero le mie mani, sulle maniglie d'oro, riccamente decorate in ogni dettaglio, entrai irruento in quella stanza stupenda, immacolata: un ampia libreria ricopriva la parete alle spalle della scrivania, perfettamente ordinata; un enorme candelabro in cristallo, pendeva sopra il tavolo con un plico di documenti in un angolo. Seduta, sulle poltrone di velluto verde, c'era una figura che mi dava le spalle, indossava una bella giacca, uno stile un po' vecchio per quegli anni, forse anni cinquanta. Perfino i capelli avevano un acconciatura un po' retrò, ed erano di un rosso scuro.
Si alzò in piedi, rivolse a me i suoi occhi grigi, profondi, stringendo a sé la sua borsetta, mi guardò torva, incattivita, quasi

-Mi scusi, lei non...-
-Tu non sei...- disse lei con una voce soave, bellissima.
-Sono il figlio di Aster Barker, sono...-

-Vuoi dire, Astrid Barker.-

Una terza voce, riempì l'ambiente, lo rese gelido. Il cuore mi si strinse, la mia bocca aperta si richiuse, veloce. Tacchi, risuonavano sul marmo della sala, cupi, spilli che si infilavano nella mia pelle facendomi sobbalzare.
Passò al mio fianco, la sua figura, bellissima, longilinea, non mi degnò di uno sguardo, come se fossi invisibile. Con il suo costoso taieur nero, accolse la donna; il gioiello con la quale si espose fu il suo sorriso, così cordiale, accompagnato dai suoi occhi simili a inscalfibili diamanti. Allargò le braccia, le sue dolci mani potenti si sporsero in avanti, a congiungersi con affetto a quelle dell'altra donna.

-Benvenuta, zia Miranda.-


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