III

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-Grazie, Astrid. -
Un sorriso coronò le labbra della donna dalle linee perfette e le forme più desiderose. Le labbra dipinte di rosso messe ancor più in risalto dalla pelle candida, che accentuava gli occhi verde smeraldo.
Mia madre, Astrid Barker, guardava zia Miranda, questo nostro parente a me sconosciuto, con un tal affetto che mi fece corrodere dalla gelosia e liquefare dallo stupore.
Le loro mani si erano strette le une con le altre, affettuose, al contempo gelide, diplomatiche. Rimasero ferme a guardarsi; le dita sottili, delicate di mia madre, strette in quelle viscide di Miranda, rosee, tentatrici, bambine.

-Quindi è lui, tuo figlio.-
Non mi ero accorto che ora la donna si era voltata verso di me, e che mi studiava: automaticamente cercai di farmi più dritto che potevo, il più composto possibile. Ero sotto esame da quattro occhi ora, da stupido, avevo abbassato la guardia.

-Sì. E' lui.-
il suo sorriso era scomparso, la figura alta, longilinea di mia madre adesso mi piombava addosso: nella sua rabbia sembrava schiacciarmi a terra.
Muta, sembrava chiedermi perché fossi lì.
Muta, mi urlava addosso, indicando la porta.
Muta, cambiava idea, mi indicava direttamente le ampie vetrate con quelle sue pupille scure: ucciditi, non sei degno di esser mio figlio. Buttati.

-Me lo ricordo in fasce.- aveva detto zia Miranda, compiendo dei passi verso di me, distraendomi da quello sguardo terrificante. Me la ritrovai subito di fronte, mi aveva preso il mento fra le dita, con una presa salda, mi aveva alzato la testa. Mi esaminava come uno schiavo.
Io non ho mai visto fotografie di quando ero bambino. Se nelle altre case, appese alle pareti ci sono ritratti di famiglia, le fotografie che immortalano la giovinezza, il passare del tempo, nella mia ci sono solamente specchi.
Un continuo confronto con sé stessi, un continuo scontro con il presente.
Una continua battaglia con me stesso.
Cercai di immaginarmi, piccolo, indifeso, in fasce fra le braccia di mia madre, cullato teneramente e poi passato fra le braccia di zia Miranda, ancora più giovane, i capelli ramati sciolti sulle spalle, gli occhi pieni di speranza e voglia di mangiarsi il mondo, gli stessi dopotutto, che in quel momento riuscivo a vedere davanti a me.

-Ha gli zigomi di nostro padre.-

Sentii il pomo d'Adamo abbassarsi ed alzarsi, su e giù per la gola. Un movimento involontario che non dovevo compiere.
Avevo sentito bene?
Nostro padre?

Silenzio.

Mia madre non rispose, era immobile, e ci guardava, la vedevo, dietro le spalle della zia che guardava i miei occhi, come se fossi diventato uno specchio per seguire il riflesso di mia madre.

- E gli occhi, guardali! - aveva detto entusiasta, un largo sorriso ed i denti candidi si sporsero dalla sua bocca, il viso si illuminò di gioia, ma non d'amore. Sembravo un cagnolino da ammirare nella vetrina di un negozio per animali.
Le sue dita si strinsero intorno alla mia mascella, mi afferrò ancor più saldamente costringendomi a voltar la testa verso sinistra.
-Azzurri come il cielo al buio, e così grigi e fumosi alla luce. - Il suo sorriso sparì piano piano, perfino la sua voce si fece più cupa - Come quelli di Amanda. -

-Esatto.-
Una parola detta con fermezza, un punto fermo che metteva fine a quella messa in scena. Si erano scambiati segni d'affetto, ma erano l'uno il Giuda dell'altro; si sorridevano, baciavano le loro guance, ma in realtà avevano voglia di strapparsi la pelle dal viso a morsi, affondando i denti nella carne, tirando come belve furiose, stringendosi l'uno nelle code serpentine dell'altro.

-E' magro. Troppo. Il non mangiare è forse una sua scelta?-
-Sì.- rispose repentina mia madre al mio posto. La lingua schioccò come un colpo di frusta.
Non era vero e dovetti accettare quella risposta senza colpo ferire.
Le porzioni nel mio piatto sono andate a diminuire con gli anni. Ora vivevo quasi a pane ed acqua, ed era volontà di mia mamma: le disgustava il cibo, le disgustava il rumore delle posate sui piatti, le disgustava la bocca che frantumava il cibo, ne odiava la forma, l'odore.
Ciò che a lei non piaceva, non doveva piacere neanche a me.
E poi era quella la via alla perfezione: eliminare ciò che era superfluo, eliminare ciò che era insulso, inutile.
Mangiare era una disgustosa perdita di tempo.

OPHISWhere stories live. Discover now