Una struttura anni venti, che chissà quali fondi era riuscita ad accaparrare per avere le camere ristrutturate, la mensa e la sala d'ingresso, e chissà quanti altri soldi avevano rubato per lasciarla incompleta. Lo scheletro della storia di quel luogo si percepiva nei corridoi, quando il bellissimo parquet bianco, inserito per dar scena, per abbellire l'ambiente ai visitatori, si interrompeva in una scacchiera consunta, verdastra, sporca di polvere e di fantasmi. Molto tempo prima era un manicomio, in alcune aree dell'edificio le porte erano ancora blindate, numerate, e per l'inserzia dei responsabili, alcuni corridoi erano rimasti sudici come alla nascita di quel posto, perché già i suoi scopi non erano dei migliori: quanta gente era stata rinchiusa là dentro, con giri di carte, voci, superstizioni, che in realtà si basavano su bugie?
Tante, sì, erano tante, ed una di quelle era Oscar, che nella camera 1322 aveva scritto ad un angolo di quella stanza infernale, in quel piccolo buco: "Io non sono pazzo."
- Aster, guardami quando ti parlo.-
Il ragazzo seduto sulla sedia, dritto, composto, ben vestito nelle sue grandi marche che sfoggiava come se fossero lascia passare per il mondo, spostò la testa, guardando con quei diamanti quegli occhi pieni di rughe, marroni, posati con poca grazia su quel viso maschile, smunto, ingranditi da quegli occhiali rotondi, orribili.
- Hai capito la domanda?-
Dottor Popov, un russo, un emigrato, psicologo, forse neanche senza una vera laurea, pensava ancora che il più grande esponente della sua materia lavorativa, non che anche il più moderno, fosse Freud. Parlava perfettamente in inglese, nessun accento della sua lingua natia e sembrava uscito da un manifesto dell'Unione Sovietica, vestito di tutto punto, i baffi scuri, il naso adunco, le gambe accavallate. Scribbacchiò qualcosa e distrattamente, lasciando scorrere quei brutti occhi sulla carta ripetè la domanda:
-Credi ancora di essere la paziente Astrid Barker?-
Si sentivano i rumori delle tubature, dei topi nella soffitta, purtroppo nessun rumore esterno per la mancanza di finestre, lo scricchiolare delle scarpe nei corridoi, il fruscio dei loro vestiti all'alzarsi e all'abbassarsi del loro petto, ma non una parola uscì da quelle candide labbra.
-Hai ripreso a mangiare, vedo. -
Era una mera illusione, non toccava cibo da due settimane.
-Hai ripreso un colore normale.-
Falso anche quello.
- E qui vedo, che hai preso cinque chili. -
Aveva truccato la bilancia.
- Non ti fa più schifo il cibo?-
Ovviamente sì, certo che gli faceva schifo. Spostò lo sguardo ancora altrove: in un altro angolo della stanza, inciso con chissà che cosa, accanto ad una lampada da studio Oscar scriveva: "Io sono solo me stesso."
Sentì lo schioccare delle dita del dottore, voltò di nuovo lo sguardo, muto, impassibile.
-Ho detto occhi a me. -
Perché era ancora lì? Perché non era a casa sua? Avrebbe preferito di gran lunga sopportare Thor e quella deficiente della sorella, saltellare per casa a cantare canzoni orribili di una orribile band, che rimanere ancora lì.
Una goccia d'acqua gli cadde sulla testa, che alzò: il tubo dell'acqua perdeva da quando aveva memoria di quello studio squallido. Tic, tic, tic, tic. Lei e l'acqua stagnante, contaminata, di quel tubo ormai erano migliori amici e quando si facevano le 10.40, ogni mattina quando si sedeva su quella sedia vecchia, scomoda, si incontravano, e parlavano loro due.
Tic, tic. Mancano cinque minuti alla fine.
Tic, tic. Guardalo che stupido con quella faccia da stoccafisso.
Tic, tic. Tra poco si arrabbierà perché non rispondi a nessuna domanda.
Tic, tic. Ti sta chiamando.
-Aster.-
Aveva ripetuto a voce più alta. La consonante finale del suo nome rimbombava sulle pareti, ribalzando da una parte all'altra, il sospiro del vecchio sembrò segnare il preludio di una crisi nervosa.
-Ritornando alla domanda...-
-Non è strano?- parlò lui improvvisamente, alzando il mento, con quell'aria di superiorità, i suoi occhi brillavano, la sua lingua si muoveva sul palato come quella di, un serpente, e al vecchio quasi non gli prese un colpo; aveva parlato dopo tre settimane di sedute fatte di silenzi. Si affrettò a scrivere qualcosa, e con altrettanta fretta rispose:
-Che cosa, caro?-
Caro.
Sentiva risuonare nella sua testa le parole," brutto bastardo figlio di puttana", ogni volta che lo guardava in faccia, e quel caro era come uno sputo in pieno volto.
Deglutì prima di parlare ancora, come ad ingoiare un affronto, piegando la testa di lato, ed in quel momento vide scritto accanto ad una pianta: "Io amavo solamente quello che gli altri non amavano. Perché tutti pensano che debba fare le cose che fanno tutti? Io non voglio essere tutti. Io voglio essere io, voglio essere Oscar."
Erano la frase che leggeva più spesso sulle pareti di quella baracca, i pensieri di un detenuto, che forse per quei miseri mortali, neanche ne aveva di importanza, per loro erano più importanti le frasi come " Mangia con moderazione" e "Una mela al giorno toglie la bilancia di torno."
- Che il numero di questa stanza sia il 1322?
Quello strabbuzzò gli occhi, si inumidì e labbra, li strinse di nuovo come a cercar di veder bene i suoi pensieri, chiusi, sigillati.
- Cosa intendi ragazzo mio?-
-Sommi le prime due cifre, professore.- sorrise tranquillo, mostrando i denti bianchissimi.
- Sommi singolarmente le ultime due al primo numero, fa diciassette. E' l'età mia e di Astrid Barker.-
Tic, tic. Bravo! BRAVISSIMO!
Tic, tic. Guarda come rimane di stucco!
Tic, tic. Guardalo, guardalo, come diventa rosso sulle orecchie!
Tic, tic. Guarda come odia il suo lavoro.
Tic, tic. Ci vuole l'uscita scenica, amico mio, vai via Aster vai via. Renditi libero.
Tic, tic. Oscar non fu libero, ma tu puoi esserlo. Via! Via!
Tic, tic. Spero di non dover più battere su questa bellissima testolina scura.
Tic, tic. Mi mancherai amico mio.
Si alzò in piedi, infilò le mani in tasca, il dottore diceva qualcosa, alzava la voce ma lui non sentiva, stava andando dritto alla porta, che si aprì ad un suo gesto
-Addio, goccia.- mormorò nel mentre stava varcando la soglia.
Ma incominciò a non vedere più, macchie di luce, si espandevano sul suo campo visivo, come una vecchia pellicola di un film che va a bruciarsi, interrompendo la scena più bella, lasciando che i fischi, le urla di scontento piombino nella sala come un macigno. Il corpo non resse, semplicemente. La sua mente lucida lo aveva fallato, ed ora il suo corpo, alla soglia della libertà sembrava un burattino senza burattinaio, lasciato su di uno scaffale sull'orlo di cadere.
Il giorno dopo si trovò a subire una nutrizione enterale, rifiutandosi di aprir bocca perfino quando gli infermieri gli tapparono il naso.
Lui, Oscar e Goccia, si rividero ancora, per un altro anno intero.
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OPHIS
General FictionLa vita è una sensazionale melodia di morte, si può esser musicisti o strumento. Si può scegliere di esser la graziosa mano che si adagia fra le corde, si può esser in balia di quelle mani, che venerate come dee dell'amore, ci permetteranno di esser...