III-Fa, Ammira.

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Ingrid Olson, nacque in una giornata di primavera.
Prima ancora di un suo vagito, Boston fu invasa da una terribile tempesta: il cielo diventò plumbeo, la nebbia si infittì fino ad oscurare il sole.
Ingrid, nacque al freddo, come sua sorella prima di lei, un freddo che durò molto meno, un freddo che sembrava baciarla sulle labbra, più che condannarla.
Un bacio d'addio, perché vinto dalla luce del sole, che senza fatica si era fatto spazio fra le matasse morbide e bianche, illuminando i suoi occhi verdi.
Viride distese di prati, le fronde degli alti alberi, le radici profonde fino al centro, atro, della terra. Smeraldo i suoi occhi, riflessi in quelli della sorella maggiore, costretta a curarsi di lei.
Non osava toccarlo, quell'essere incapace di intendere e volere, racchiuso nelle sue tutine candide, racchiuso in quell'amore che la figlia di Loki vedeva scivolar via dalla punta delle proprie dita.
Lo guardava quell'essere, e non provava niente per lei, solo odio, viscerale, una gelosia crudele che la corrodeva, lentamente.
Astrid stringeva le mani affusolate e gentili sul bordo della culla della sorella: erano grinfie da predatore o i comuni artigli di un uccello indifeso?
Non la voleva lì.
Non la voleva morta, la voleva altrove.
La morte non se la meritava una creatura appena venuta al mondo con così tanta fatica, ci voleva coraggio a non morire al caldo, fra le carni di un corpo vivo, e decidere di sfidare la sorte fino ad uscir fuori dal grembo prima del previsto.
Ci voleva coraggio, a sfidare con un sorriso, una risata, chi più di tutte non la desiderava, sbattendo i piedini all'aria, cercando di aggrappare i lunghi capelli neri della sorella maggiore fra le ditina paffute.
Divenne una sfida a chi avrebbe sopportato di più la presenza dell'altro.
Ingrid aveva già vinto, con quella risata da bambina, quella dolcezza, quella naturale bontà che le circondava la figura rotonda, morbida, da carne ancora in crescita.
E sotto gli occhi della figlia di Loki, crebbe, gattonò, camminò, balbettò parole indecifrabili: più cresceva ed imparava, più la bambina dai lunghi capelli neri e gli occhi di ghiaccio era restia alla figura della sorellina.
La disgustava quel suo modo di muoversi goffo, stupido, quel suo modo infatile di chiamarla a sé, con le manine che stringevano l'aria, la sua boccuccia rosea che urlava:

"Attid!"

Non sopportava i suoi pianti, come le sue gote si gonfiassero, diventando più rosse dei suoi capelli; non sopportava il suo odore da bambina, il suo candore, la sua purezza, il suo amore.
Lei si avvicinava, su quelle gambine incerte, si allungava verso la sorella maggiore con gli occhi che brillavano di curiosità: toccava con le sue luride mani, la sporcava, la figlia della traditrice, lei che portava le colpe di Francis Rose agli occhi cianotici della bambina. La spingeva via, violenta, cattiva.

-Smettila, bestia.- sibiliava, e lei piangeva, e la lasciava affogarsi nelle proprie lacrime.

Ma non la smetteva mai: toccava, sciupava, deturpava.
Doveva smetterla, doveva finirla.
E giù, la spingeva a terra.
Pianti, strilli, finché nelle braccia della madre il suo pianto non si placava.
Divenne ancora più fastidiosa, la sua bella voce, quando imparò a pronunciare il suo nome come si deve:

-Astrid! Astrid! Astrid!-

Urlava, maledetta, per tutta casa.
Urlava, urlava e urlava il suo nome.
Correndo, si trascinava le lettere con sé, che la seguivano ubbedienti e divertite, sorridenti come lei.

-Astrid! Astrid! Astrid! Mi vuoi bene?-
-No.-

E quegli occhi smeraldo di riempivano di lacrime, cadevano sulle guance come gocce di pioggia
-Perché? Perché?- tuonava la
piccina.
Succedeva sempre così.
E Astrid, imperturbabile nello sguardo, con le labbra serrate, che schiudeva lentamente, rispondeva:

-Perché non sei mia sorella.-




















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