I-Sol, suona.

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-Tu non sei Astrid Barker.-
-Sí, che lo sono.-
-Senti, non sappiamo assolutamente chi tu sia, tu...-
-Aster Barker, sono Aster Barker.-
-Sei il fratello di Astrid?-
-Sono la stessa persona, chiedi a mia madre. Oggi è il giorno che lascio questo dannato posto.-

La signora, ben vestita da dietro quel bancone, lo guardava con quei suoi occhi piccoli, seppur buoni, la maglietta di un rosso corallo, le unghie del medesimo colore, due grossi orecchini che le prendevano dai lobi. Aveva tent'anni e ne dimostrava quaranta negli occhi gelidi, incavati, del ragazzo, vestito con una semplice maglia bianca, pantaloni neri, il viso smunto, le ossa magrissime delle braccia che finivano nelle tasche dei pantaloni, nascondendo le mani.
Abbassò lo sguardo, la donna, con quell'atteggiamento tipico del disagio, guardò i fogli, la sua penna bic scorse sui nomi, si alzò in piedi, girò intorno a quella scrivania bianca, immacolata, di quattro soldi, premette la mano sulla sua spalla.

-Chiameremo tua madre allora...-
-La deve chiamare adesso.-
-Ti accompagno alla mensa per mangiare qualcosa e la chiamiamo.-
-Mente.-
-No, caro.-
-Sì invece.-
-No...-
-Ho detto di sì. Tanto non chiamerà mia madre.-

"Insulsa bugiarda."
Aveva sentito la puzza della menzogna, il sapore aspro della sabbia sulla lingua, l'odore della terra sporca, che si insinuava nella gola, si impastava nella bocca, fra i denti e sotto la lingua; si infilava nelle narici perfino, e raggiungeva i polmoni. Aveva storto le labbra lievemente, contratto gli occhi, stringendoli e chiudendoli lievemente.
La donna non seppe che aggiungere a quel tono sicuro, freddo. Fino ad ora si era fatto guidare, ora stava fermo lì a guardare la donna. Diciassette anni e ne dimostrava di più, non solo negli atteggiamenti, ma nel modo di pensare.

-Chiami mia madre.- un ordine secco, preciso.

"Lurida mortale, ascoltami."
Tutto quello per una promessa a sua madre, una settimana in quel centro e non di più. Risucchiavano i suoi soldi in banca, Aster glielo aveva detto, uno spreco di tempo e denaro, non le aveva dato ascolto, e allora stava al gioco.
Sette giorni, e dodici chiamate dal centro:

"Vostra figlia ha buttato una ragazzina fuori dalla finestra chiamandola, sporca mortale obesa."

"Vostra figlia ha, non abbiamo capito come, appeso i mobili al soffitto."

"Vostra figlia ha legato un compagno e lo ha utilizzato come bersaglio, utilizzando delle arance."

" Vostra figlia ha minacciato un dipendente con un coltello di plastica spezzato, affermando che gli avrebbe cavato entrambi gli occhi."

Quota di tutto questo, 4.000 dollari. Danni alla salute altrui, al mobilio, ai dipendenti. Aspettava che la cacciassero fuori di lì a pedate, prima che distruggesse quella reggia di cibo, medicine, sorrisi di assassini della mente altrui.

E quel giorno stesso, l'altra chiamata a casa Barker fu:
"Signora, vostra figlia è fuggita dal plesso senza comunicazione. Non sappiamo come, ma è fuggita."

Non la vedevano la somiglianza, non vedevano che Aster era Astrid. Erano ciechi, erano sordi.
La comunicazione che impegnò i dipendenti della struttura subito dopo fu per la polizia: "Salve, buongiorno, avete comunicazioni per un ragazzo di salute instabile in zona?".

Salute instabile.
Ecco il principale motivo della sua reclusione in quel posto.
"Si rifiuta di mangiare, dice che è superfluo." Aveva spiegato Francis Rose Barker facendo scoccare la lingua biforcuta, nascondendo fra le dita i solchi della disperazione sotto i bei occhi verdi. Buttava il cibo, lo lanciava in aria con gelide occhiate, sua figlia, ma solamente nel primo periodo, tant'è che sembrava un capriccio d'un adolescente. Ma mano a mano si capì che non era altro che una scusa: la rabbia, la violenza, erano un ottimo modo per distrarre i crampi della fame del suo digiuno forzato. E riuscì nel suo intento, si abituò, fino a non sentire più nulla se non il disgusto più totale verso qualsiasi elemento commestibile. Mano a mano si fece più esperta, non le servivano più le scenate: parlava con convinzione, con la magia creava illusioni, il suo corpo macilento nascosto da un adipe fasulla, il suo pallore malaticcio coperto da un incarnato che era in salute ed uniforme. Era fiera di quelle bugie ben architettate, era fiera della sua mente, ma non poteva dire lo stesso del suo corpo: svenne a scuola, fu ricoverata proprio in quel centro, in quel circolo di vivande e malattia.

Ed è così che finì alla mensa, per la colazione che non voleva mangiare, che non voleva vedere.
I ragazzini che conosceva bene, lì con lui, obesi e anoressici, che lo guardavano come se fosse un alieno. Un infermiere gli aveva portato un vassoio, su di esso c'era un biglietto, il così detto 'messaggio del giorno' da parte della mensa:
"La tua salute è importante. Anche ai tuoi amici piacerai di più se sarai in forma! Continua così! Buon appetito!"

Non gliene poteva fregare niente di quello che le persone vedevano, né degli amici, che non aveva, né dei nemici che la aspettavano fuori la porta. Né di sua madre, né di sua sorella.
L'infermiere, Harry Odsnor, così si chiamava, guardò il ragazzo che con la testa china, guardava il cibo e non lo toccava, come se fosse radioattivo, come se al tocco potesse morire.

-Mangia qualcosa dai.- disse quello e lui alzò piano la testa, così lentamente che per un secondo l'infermiere pensava potesse collassare davanti a lui, ma non appena i suoi occhi incrociarono quelli del ragazzo si ricredette: erano vivi, vispi e attivi, cattivi e crudeli.
-Almeno bevi il latte.- si azzardò a dire.
Fu come se avesse detto la frase corretta, la giusta coordinazione fra le sillabe. Aster si mise dritto,guardò prima lui di sbieco e poi di nuovo il vassoio. La sua mano, sottile, affusolata andò a toccare lo scatolino di cartone bianco, mani di un pianista e di un chirurgo, che con precisione aprirono la linguetta laterale.
Alzò la scatola, un lieve cenno come un brindisi verso Harry, che lo guardava curioso perché non capiva perché quegli atteggiamenti gli erano familiari. Le labbra si posarono sul recipiente, il latte gli riempì la bocca, ma rimase a guance piene non ingoiò , posò lo scatolo ed il viso fu rivolto a quello dell'inserviente.

-Beh?- disse confuso -Ingoia, no?-

Altra perfetta combinazione di parole. Si alzò in piedi, così tranquillamente che Harry non pensò nemmeno potesse far qualcosa di male. Il braccio si alzò, il gomito puntato al soffitto, il recipiente stretto fra le dita, che lasciava colare il latte sulla testa di quello.
-Ma che...?-

Gli sputò il latte ai piedi, mentre quello stupito, colto di sorpresa si spostava sulla sedia e neanche si alzava.

-Avevo scommesso sul fatto che eri un povero pedofilo.-

Gli lasciò il cartone vuoto del latte in faccia con violenza, poi la scatola di cereali, e poi l'intero vassoio con tutto quello che c'era sopra.
Chi guardava dei coetanei rideva o era troppo sconvolto per dir qualcosa. Venne preso dalle braccia ed issato, sollevato da terra da due omoni, la signora dell'ingresso era sullo stipite della porta, rossa quanto la sua maglietta.

-Zitti! Tornate a mangiare!- urlava come una pazza, una pazza manicomio, per Aster era da rinchiudere.
Ed invece rinchiusero lui, in una stanza singola con un bellissimo letto, le pareti ben dipinte, le frasi motivazionali sul muro:
"Il tuo corpo ha bisogno di nutrimento, per il buon funzionamento della mente e del corpo! Se vuoi puntare a diventare Einstein, o Stephen Hawkings, devi mangiare, ma senza esagerare!"

Girò la chiave nella toppa con un clack, e lì rimase, per un'altra settimana. E lì ritornò per tre anni ancora.

OPHISWhere stories live. Discover now