Un vagito irruppe nel traffico cittadino di Oslo, rumori di moderata portata, paragonati a quelli delle grandi città europee. Un lieve pianto sommesso che portò improvvisamente il silenzio: né il vento, né le onde del Mare del Nord, né fauna, sembravano osar fiatare. Era sveglia, era viva.
Era passata un ora dalla sua nascita, stavano per darla morta, avevano già preparato i certificati di morte per un figlio mai nato, un senza nome, di cui si sapeva solo il sesso: femmina.
Era morta, incredibilmente morta, chi mai avrebbe pensato che improvvisamente i piccoli polmoni non ancora completamente sviluppati di quel feto, si sarebbero riempiti d'aria. Chi lo avrebbe mai detto che la sua boccuccia, violacea, si sarebbe aperta lasciando spazio ad un suono così potente.
In quel mese di transizione per molti paesi, quando le ultime foglie cadevano dagli alberi e si insidiava piccolo e fastidioso, il vento gelido di dicembre, nacque Astrid Barker.
Decise di nascere in uno dei mesi più freddi, in uno dei mesi più bui, come se, scampata all'oltretomba, avesse portato con sé l'oscurità di un luogo tanto ostile.
E quella piccola creatura urlava, urlava, urlava. Cercavano di calmarla, eppure continuava il suo lamento, disperato. Aveva quasi svegliato tutti i bambini nelle altre culle di vetro, che protetti in quelle ampolle, cercavano disperatamente di sopravvivere alla stessa decisione che aveva preso quella bambina, minuscola, fra le mani delle infermiere: nascere.
La portarono dalla madre che pianse di gioia, e più veniva scossa dai singhiozzi, più provava dolore, essendo in un pessimo stato. Ogni lacrima nasceva dolce e diveniva amara, posandosi sul corpicino minuscolo della bambina, che non la smetteva di disperarsi, il calore della madre non serviva a niente. Si era fatta largo fra le viscere di quel ventre e ora lo respingeva, non lo voleva più, lo detestava.
Piangeva, piangeva, piangeva.
La portarono sotto i ferri ed i macchinari, che fosse nata informe?
Che fosse difettosa?
No, era sana, sana come uno dei tanti pesciolini che sopravvivono alle basse temperature del loro mare. Eppure, non smetteva, non la finiva di gemere, e dovettero metterla in una stanza, nella solitudine del suo corpicino e del suo odore di viscere e sangue, fra il rumore meccanico, ripetitivo dei macchinari che la circondavano, dei tubicini che le arrivavano in vena, in pancia, in gola.
Passarono tre giorni, e non sapevano come zittirla, il suo tono di voce non faceva altro che affievolirsi sempre più, ed ora si agitava, perfino, strappandosi aghi e collegamenti ai macchinari con violenza.
Ma il terzo giorno dalla sua nascita finalmente si zittì, le infermiere la credettero morta, finalmente muta e passata all'altro mondo. In tre decisero di andar a controllare. Erano pronte a farsi il segno della croce, la mano destra era già a mezz'aria fra il petto e la testa, ma quando aprirono la porta della stanza in cui era custodita, non videro altro che un uomo, alto, possente nella figura, il viso lungo, gli zigomi alti, gli occhi glaciali puntati sulle sue mani lunghe, affusolate, che soreggevano la bambina, che zitta, incantata, aveva perfino spalancato gli occhietti e muta, si lasciava cullare dal respiro dell'uomo, dal sfrusciare delle sue vesti eleganti.
- Han lette etter meg.-
(Cercava me.)
Spiegò lui con un tono profondo, incisivo che sottolineava un ordine celato: uscite.
Le donne ormai avevano rinunciato a quel segno di misericordia con cui avevano, per l'ennesima volta, intenzione di marchiarsi, le loro mani si erano abbassate, e semplicemente, stupite, si fecero indietro, una di loro aprì la porta e una per volta, dando le spalle all'uomo se ne andarono chiudendosi la porta alle spalle.
Era ancora una bambina senza nome, quel piccolo miracolo, che ora alzava quella piccola manina afferrando la collana che l'uomo portava al petto: due serpenti smeraldo, che si intrecciavano a formare una S.
-Ásfríðr. -
La battezzò lui, le sue labbra si stesero in un sorriso – Bimba mia, impaziente e pretenziosa. – l'indice andò a posarsi sulla guancia della neonata – Creatura mia, sarà tuo appena non uscirai di qui. – Le iridi cianotiche della neonata si scontrarono con quelle così simili dell'uomo che aveva di fronte, la somiglianza fra i due era sconcertante.
– Non ti serve neanche il mio simbolo, chiunque capirebbe che sei la figlia di Loki. -
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OPHIS
General FictionLa vita è una sensazionale melodia di morte, si può esser musicisti o strumento. Si può scegliere di esser la graziosa mano che si adagia fra le corde, si può esser in balia di quelle mani, che venerate come dee dell'amore, ci permetteranno di esser...