IV-Sol,Suona

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-Allora, come va oggi?-

Era sempre questa la domanda da preludio di ogni seduta: non buongiorno, non buon pomeriggio, non un saluto come le persone normali.
No, "come va oggi?".

"Come ieri, come l'altro ieri e come sempre.
Io sto bene dall'inizio di questo strazio.
E lei?
Io spero che lei stia male, dottore. "

Ma a quella domanda non rispondeva mai.
A che serviva? A che giovava?

-Allora, ormai avrai finito la scuola. Come ti sei trovata nella scuola privata?-

Quel posto era sempre il solito squallore: una stanza per tre persone, piccola, le pareti umide, le tubature scoperte sul soffitto, non una finestra, solo quelle orribili luci a neon che ingrigivano la stanza.
La faccia del professor Popov era ancora piena di cicatrici, e sul suo volto non c'era l'ombra del rancore e della rabbia, anzi era delicato, affabile, viscido come la creatura più immonda che la mente divina potesse mai concepire. Le mani rinzecchite di lui, grosse, che tremavano appena, erano poggiate sulla scrivania, unite l'una con l'altra, la penna accanto a quel blocchetto che spesso utilizzava.
Non poteva sapere il dottore, che Aster, il ragazzo che gli aveva causato quelle cicatrici, che era stato punito e sbattuto dietro le sbarre del carcere provvisorio del commissariato, in realtà era lei. Non sapeva, che era sempre sua madre che aveva svuotato il suo portafoglio pagandole la cauzione. Lui era cieco, con quegli occhiali rotondi, era stupido, con quella testa ammaccata.
La sua scrivania era spoglia: due penne in un barattolo di latta, dei fogli alla parte opposta, una foto di lui e la sua cara, carissima moglie, in vestiti tradizionali russi. Erano giovani, e sorridevano come due bambini.
Il dottor Popov abbassò la testa per cercare lo sguardo della ragazza: il suo viso orribile, marchiato dalle cicatrici da lei stesse provocate, che gli avevano stropicciato la faccia come una carta appallottolata, e che gli rendevano gli occhi ancor più piccoli dietro quelle lenti spesse, rotonde. Sotto i baffi grigi ci fu l'ombra di un sorriso che sembrava il preludio dell'attacco di un predatore sulla propria preda, uno sguardo indecifrabile, quello sguardo che ti fa sentire in soggezione, con le spalle al muro, più impotente che mai.
Ancora se lo ricordava, quel verme, che con le mani alzate cercava di proteggersi il volto dai colpi violenti del violino che sbatteva, sulle quelle ossa marcie da povero vecchio. Ancora si ricordava l'odore del sangue, l'odore delle ferite aperte sul suo volto, le urla indecifrabili che mai arrivarono chiare alle sue orecchie; della sua voce, prima profonda e che poi squittiva pietà, come un sorcio in trappola davanti al gatto con gli artigli spiegati. Squittiva, come il topo afferrato fra le zampe e intrappolato fra artigli bianchi e candidi di un felino, appuntite e spietate lame, che si conficcano nella tenera carne della piccola preda. E così come l'astuto animale gioca con le sue prede prima di toglierle la vita, così aveva fatto lei. Si era divertita a sentire il legno che con forza perdeva i suoi suoni preziosi, che spaccava gli zigomi, il setto nasale, di quell'uomo fallito e senza più un posto nel mondo; quel legno che imprigionava, in quei resti della cassa toracica di quel piccolo strumento, che ora non poteva far altro che suonare note di dolore, o flebili melodie. Se solo qualcuno avesse avuto la briga, di prendere i resti imbrattati di sangue dello strumento e portarli all'orecchio, forse, avrebbe sentito i sussurri che svelavano i motivi di quel gesto tanto violento quanto spaventoso. Esattamente come le conchiglie che portate all'orecchio, sono capaci di rivelare tutte le parole che tutti gli innamorati, nel corso del secoli, si sono detti sulla spiaggia, e che siano parole d'odio o d'amore non importa. Di fatti, noi stolti, nel posare quei gioielli marini all'orecchio, non sentiamo altro che un tumulto di sussurri interminabili, e noi, scemi, diciamo che sono le onde del mare.
Semplicemente perché non abbiamo né voglia, né pazienza, di ascoltare gli altri.
Forse fu questo, quello che sentirono quelli che ripulirono la sala dal disastro.
Un tumulto di pensieri contrastanti, tanto crudeli e teneri, tanto stupidi e pieni di verità, che nessuno aveva voglia di ascoltare. Solamente zittire e buttar via.
Ma se solamente uno di loro, si fosse preso la briga di capire veramente le sue intenzioni, forse gli avrebbe dato ragione, a quella ragazza pazza.
Lei voleva solamente vivere la sua vita, vivere senza che gli altri condizionassero le sue idee, senza che gli altri le dicessero cosa fare e cosa dire, senza che nessuno le impedisse di fare quello che voleva, anche se quello che voleva volesse dire macchiarsi di uman disonore e vergogna.
Lei non voleva mangiare per dar spazio e tempo al sapere.
Lei non voleva stare con gli altri perché non aveva tempo da perdere a sciocchezze.
Lei voleva l'amore, quando e come lo diceva lei.
Lei voleva gli altri solamente perché dovevano esserle utili.
Lei voleva, voleva, voleva, e non intendeva dare niente in cambio.
Dopotutto ora, stava donando ore e ore del suo prezioso tempo, perché mai fare un gesto così caritatevole nei confronti di chi sembrava prendere tutto senza neanche dir grazie?

- Astrid?-

Tic.Tic.Tic.
Ti chiama! Ti chiama!
Lo scorbutico, ti chiama!

Oh Goccia, quanto le era mancata.
Quella piccola particella di acqua salmastra ed infetta, che seguendo un ritmo perfetto, le baciava la testa, cadendo, ripetutamente fra i suoi capelli scuri, sciolti sulle spalle.

Tic.Tic.Tic.
Rispondigli! O non la finisce più!
Tic.Tic.Tic.

- Ripeta la domanda. - chiese con quella voce fredda, calma, distante.
- Ho detto- ripetè quello, con una voce suadente, appiccicosa come il miele, che a contatto con l'epidermide diventa come colla - Come ti sei trovata nella scuola privata?-

Tic. Tic. Tic.
Ottima domanda!
Tic.Tic.Tic.
Proprio un ottima domanda!

Goccia aveva ragione, lo era.

Come si era trovata?
Come si era trovata, costretta a seguire il consiglio di quel sorcio, le cui parole avevano ammaliato sua madre, tanto da spingerla a fare tutto quello che lui diceva e consigliava?
Come si era trovata in una scuola privata, zeppa di donne e uomini devote a Dio, che nel vederla, bigotte, ottuse, la scambiarono per figlia di Satana?
Benissimo.
Si erano tutti perfettamente integrati al suo regime, gli alunni in particolare: esitevano Aster Barker e Astrid Barker e tutti erano convinti che queste due figure fossero fratelli gemelli, che non si sa per quale motivo, si odiavano, e si odiavano talmente tanto da non potersi vedere, e tutti li conoscevano.
Aster Barker e Astrid Barker avevano in comune tutto: erano identici, perfino nei modi, e nelle particolarità del loro carattere.
Non gradivano i rifiuti: soprattutto per quanto riguarda le cose illecite. Le cose che avrebbero fatto arrossire anche i meno puri in quel posto baciato dal signore, e che avrebbero fatto inorridire all'apparenza chi mandava avanti quel posto.
Non gradivano la scortesia: chi osava mancare di rispetto veniva punito, nei modi più svariati, e qui davano spazio alla loro florida e vasta fantasia.
Non gradivano la disobbedienza e tantomeno le bugie, la vendetta era assicurata.
Non gradivano le idee che non fossero conformi alle loro, ed erano capaci di sdrotolare quella lingua lunga e velenosa dalle loro labbra carnose che non si consumavano mai, né per la furia nel parlare, né per l'avarizia nel baciare, né per la gola nel leccare e mordere con lussuria.
Entrambi, cioè solo e solamente Astrid Barker, era stata capace di rivoluzionare quel luogo da capo a piedi, diventandone l'assoluto padrone, e spodestando da quel dannato trono, il Creatore che tutti osannavano.

-Bene.- fu la sua risposta, dopo un lungo, all'apparenza interminabile silenzio, alla quale il dottor Popov stava per rispondere chiamandola ancora per nome.
Quello scribbacchiò sul suo blocchetto, abbassando lo sguardo con un sorriso soddifatto.

Finalmente parlava. Allora il suo lavoro dava i suoi frutti! Allora non era un inutile umano che persegue sogni di speraza già infranti!

Se solo veramente fosse stato così, alla domanda che decise di far dopo non seguì un reale, lungo, lunghissimo, interminabile silenzio:

-E cosa hai fatto? C'è qualcosa che avrai fatto per trovare un posto che ti facesse stare così bene!-
la sua bocca finì di ballare a quelle parole tanto sciocche e seguì un sorriso patetico, uno di quelli di falsa gioia e comprensione.

Cosa aveva fatto?

Tic.Tic.Tic.
Cosa hai fatto? AH! Cosa hai fatto!
Tic.Tic.Tic.
Glielo dirai?
Eh?
Glielo dirai?

-Cosa ho fatto, dottore?
Oh! Beh, ecco un sacco di cose stupende.- la sua voce era gioiosa, come quella di una bambina, il suoi occhi fissi a guardare il suo interlocutore, di un azzurro ghiaccio, profondo, come se in quelle iridi, tutti i sentimenti e le emozioni fossero bloccate, strette ad un guinsaglio che le strozzava. Era come se, guardandola negli occhi, si sentissero i loro brevi gorgoglii, parole trattenute da quelle corde.

- Ho lasciato scoprire ai ragazzi senza speranza, e alle ragazze, le gioie della vita. Tutte quelle che quel posto privava: sembravano tutti terrorizzati, l'uno delle nudità dell'altro, come se non si guardassero mai allo specchio. Si spaventavano dei miei gesti perfino! I miei! Che erano così amorevoli nei loro confronti. Hanno assaggiato e assaporato il piacere, urlando fra quelle quattro mura, senza che nessuno sentisse e sapesse. I loro gemiti, oh, dottore, erano musica alle mie orecchie. E non sapete, quanto ancora ne chiedevano, quanto con quel tono supplichevole, chiedevano ancora della mia beltà e della mia carne. Era tutto un continuo scambio, loro si cibavano della mia, io della loro.
Ma immagino che lei, dottore, non abbia mai posato la sua lurida lingua sulla pelle di un estraneo, assaggiando i suoi brividi, il suo amore, il suo dolore, la sua gioia, la sua passione, il suo odore, la sua consistenza, il suo tutto. Probabilmente, lei si è sempre accontentato del lardo di sua moglie, e mi chiedo come non si sia ancora stancato di sentir vibrare le sue papille gustative sempre delle stesse passioni, sempre degli stessi odori, sempre degli stessi sapori.
Tutti in quella scuola hanno assaggiato il mio corpo, sa? Volenti o dolenti.
Qualcuno lo ho dovuto costringere, dovevate vedere come piangevano all'inzio, sembravano degli infanti. Poi piano piano si zittivano, si calmavano talmente tanto che mi ricadevano fra le braccia, e con gli occhi spiritati, mi guardavano in silenzio, vuoti d'estasi, ne chiedevano ancora.

Cos'altro dottore?
Ah si, ho insegnato loro l'arte della vita e della morte.
Del dolore e della sofferenza.
Ho ucciso per la prima volta, sa? Sì, sì, caro mio dottore. E' stato un gesto di autodifesa, voleva rubarmi la bellezza, voleva rubarmi la mia eternità. Non lo ha letto sui giornali? L'omicidio di Mary Whitney. Lei era la mia amante preferita, mi ha deluso, tremendamente. Ho affondato il coltello nel suo volto e gliel'ho sfregiato, le ho squartato la pelle del ventre e del busto come quando si apre una lettera con il tagliacarte.
Non prova anche lei uno straordinario piacere, a tagliare la carta della vostra posta, con quella delicatezza e quella fermezza? Non prova piacere anche lei, a far coincidere la linea della piegatura del foglio con il vostro taglio? Non è bellissimo quando, la sua opera di intagliatura, coincide perfettamente con la linea guida?
Ecco dovete immaginarlo così, signore mio: all'altezza del basso ventre, c'è come una linea guida, fatta apposta per me, attraversa l'ombelico e arriva fino al collo, e divide la carne a metà. Lei che tanto fa uso e vede far uso di siringhe, non prova piacere a vedere l'ago che trapassa la pelle? Oh, anch'io.
Ho provato tanto, tanto di quel piacere nell'affondare la punta della lama nella carne, è scivolata come burro.
Le ho tolto la vita dalla punta della lama, la ho vista aggrappata al metallo, dottor Popov, ed è stato bellissimo. E' come quando da bambini, per dispetto, sfilavamo l'operato di giorni e giorni, delle maglie elaboratamente intrecciate delle nostre nonne. Vedere come ogni anello e ogni incastro saltava alla nostra leggera pressione, e ci sentivamo i padroni del mondo.

Cos'altro...cos'altro?
Oh si! Ho imparato a suonare uno strumento!
Come lei tanto voleva, si ricorda? Si ricorda il violino? No, no, non ho imparato a suonare quello, dottore. meglio, quello lo ho imparato a suonare da sola, senza l'aiuto suo e di quell'obrobrio di sua moglie.
Ho imparato a suonare il violoncello.
Oh, signore, lei non sa quanto è maestoso quello strumento.
Però sa, questa volta ho chiesto aiuto, non volevo suonarlo da sola, volevo provare a suonarlo con un orchestra, quella della scuola. Sa, è gestita da Suor Lucia.
All'inizio non volevo andare, è stato uno dei miei amanti a convincermi, Jonas. Era furioso, non sopportava che quella maledetta stronza lo umiliasse tutte le volte che non faceva le note perfette, tornava da me in lacrime il povero Jonas e chiedeva vendetta. Allora gliel'ho offerta, in cambio del suo amore e di una piccola cortesia: gli ho chiesto di rubare i documenti dell'ufficio della prioria, e sa lo ha fatto, lo ha fatto come un bravo servo. Mi ha portato i documenti e io li ho falsificati: questo è il mio ultimo anno in quel luogo baciato da Cristo Signore. Adesso me ne potrò andare per sempre, e scegliere la mia vita per come meglio mi aggrada.
Vuole sapere come ho realizzato i desideri del mio amato Jonas?
Beh, mi sono presentata all'orchestra, prima ancora che iniziassero a suonare sul quel piccolo palco rialzato, cadente a pezzi. Chissà dove erano andati tutti i soldi delle elemosina, sicuramente non erano stati investiti in un miglioramento e in una messa a norma di quel posto.
Le mie dita accarezzavano ogni strumento, i miei polpastrelli coglievano la morbidezza degli angoli, delle curve, e degli spigoli di ogni oggetto; lo sfregare della pelle sulle superficii più ruvide, la leggerezza con cui toccavano le superficii più lisce. Accarezzai i miei strumenti di sempre, che chiaramente lei non conosce, pianoforte e violino, infanzia e adolescenza, che ormai suonavo perfettamente, erano parte di me, e mi ero stancata di averli.
Suor Lucia ha interrotto il mio rituale, mi ha chiesto cosa ci facessi lì, non ero iscritta, non potevo mica stare là! Le risposi che volevo suonare anch'io, e lei mi ha detto che non potevo.
Le risposi allora, irata, che io volevo suonare e che lo avrei fatto, e che volevo suonare l'ultimo strumento che le mie dita avevano avuto l'onore di toccare.
E sa, quella rise!
Rise signore mio, rise!
Disse che non potevo suonarlo, che ero una ragazza e che è uno strumento volgare per una ragazza.
Allora lo presi, senza aggiungere nient'altro e me ne andai. Mi inseguì, quella stronza mi chiamò ladra.
Ladra! Ladra! Ladra!
Ma non mi voltai neanche, e lo portai via. Nella mia stanza.
Mi ci volle una notte per impararlo a suonare, sa?
All'alba del giorno dopo, tornai in quella sala che cadeva a pezzi: le poltrone rotte, il sipario sgualcito, le quinte pendenti da un lato, le tavole mal saldate. Imbracciai il mio strumento, presi una sedia, aprii le gambe, e accolsi il legno fra esse, posai le mani su di esso, e incominciai a suonare.
Salut D'Amour op. 12, fu il brano che scelsi.-

Ed in quel momento un attimo di silenzio.
Si ricordò il piacere del sentir i crini scorrere sulle corde di quello strumento, sentire il corpo sinuoso vibrare sulla sua pelle e propagarsi lungo le sue braccia, il suo collo, la sua nuca e le sue spalle, lungo la sua spina dorsale. La mano posata sull'archetto, che sembrava accarezzare il corpo di un amante, con i suoi movimenti sensuali. Affondava la mano fra le note soavi e tristi, come l'ultimo addio all'amore perduto: il corpo in legno era la carne, le corde la passione, il collo, il ghirigoro in alto, capelli e testa del corpo perfetto.
Riprendeva quella sinfonia sempre d'accapo, perché ne era ipnotizzata, e quando si fermava e posava lo strumento ai suoi piedi, elegantemente adagiato sul suo fianco, ammirava le sue curve sinuose da donna perfetta, il legno rosso sangue, rosso rabbia, rosso amore. Un vermiglio così scuro, così passionale, come l'amore che aveva perso e che aveva intenzione di ritrovare. Quasi sembrava specchiarsi nella lucentezza del legno tanto pregiato, tanto sembrava vedersi in quella sua eleganza.
Poi con delicatezza, lo riprendeva fra le mani, e tornava a suonarlo con grazia, gentilezza.

- Poi finalmente entrò lei, la bocca aperta mentre ero quasi giunta a suonare le ultime note:
Blasfemia!
Orrore!
Vergogna!
Cosa fai!
Urlava, e urlava, cercava di coprire le note con la sua voce.
Non si sa mai quello che voi uomini di questo mondo volete sa? Volete che si suoni, che si ci aggrazi con la musica, volete la gloria e la fama, ma al contempo volete voi per noi. Volete le note perfette, volete la perfezione, ma non troppo, non così, non cosà. Quella donna mi strappò lo strumento dalle mani prima delle ultime note, e cercò di togliermi le mani l'archetto, ma opposi resistenza.
Urlava e sembrava il demonio, mostrava i denti e sembrava un anima in pena uscita dall'inferno.
L'archetto si ruppe, io fermai la mia resistenza, quella tirò e spezzò i crini: i residui di pece depositati sui crini volarono in aria, come pulviscolo d'oro, l'odore di pece si mischiò alla mia sofferenza. Aveva rotto la mia gioia, il mio amore.
E allora mi alzai, la spinsi, perse l'equilibrio e fece cadere lo strumento a terra, e quello urlò di dolore producendo delle note scontente che si propagarono in tutta quella sala, in un suono cupo di afflizione.
Stava cadendo, non feci cosa migliore che afferrarla per la veste santa, e dalla rabbia le conficcai la parte appuntita del legno spezzato, dell'altra metà di archetto che avevo fra le mani. Un esclamazione di sorpresa riempì le sue labbra, angelica, come i canti del coro della domenica. Lo conficcai fino all'impugnatura e senza pietà.
Perché avere pietà per una donna dalla mente tanto inutile e sciocca?
Perché avere pietà delle nullità e dell'inutile, dico bene, dottore?
Perché garantire la vita a persone del genere?
Poi aprì il palmo chiuso che teneva stretta la stoffa, e la lasciai cadere indietro, sbattè la testa e morì due volte. Il sangue era ovunque, e colava d'ovunque. Riuscì perfino ad infiltrarsi nelle tavole rialzate, immagino sia colato fin laggiù, creando una piccola pozza di morte rossa.
"E come fa ad essere ancora qui davanti a me?"
Non è questa la vostra domanda, signore? Ve la leggo in faccia.
"Come fai a non essere fra le sbarre?"
Vede, fu abbastanza semplice, ripulii le mie impronte, cancellai le mie tracce.
E per quell'omicidio non incolparono me.
Nella casa del signore! Nella casa del signore!
Sentivo piangere e urlare così tutte le altre sante donne di quel luogo tutte riunite intorno al corpo della sorella, gli uomini in divisa, i ragazzi fuori dalla porta a vetri che cercavano di allungare il collo per spiare e mormoravano sorpresi: è stato Jonas!
E già, perché quello strumento tanto bello era di Jonas, il mio amato Jonas. Fu accusato dei due omicidi consumati in quel posto e nessuno gli credette, quando come un pazzo urlò: E' STATA ASTRID BARKER!.

E questo è quello che ho fatto per divertirmi tanto, in quel luogo che lei ha tanto vivamente consigliato, signor mio. Mi è certamente stato utile, mi ha lasciato scoprire la mia vocazione. -

E sarebbe rimasto a bocca aperta, e senza fiato se solamente avesse ascoltato veramente quelle parole, che non erano altro che la verità. Ma Astrid Barker aveva pensato solamente di dire tutto ciò, ma non lo aveva fatto, per ovvie ragioni.
Come mormoravano tutti i ragazzini lì dentro: era pazza, ma non stupida.
Ma l'orologio appeso alla parete lercia, in alcuni angoli corroso e morso dalla rugine, non aveva fatto altro che contare il suo silenzio, il suo mutismo, il suo sguardo vuoto, e le parole del dottor Popov, che in continuazione cercava di farla parlare:

-Astrid?-
-Dai, non mi vuoi raccontare?-
-Astrid, per favore.-
- Vuoi parlarmi di altro?-

Tanto alla fine, finiva per parlare sempre e solo lui.
Qualche volta lo sentiva mormorare parolacce in russo, che lei capiva perfettamente, e lui pensava solamente di non esser sentito.

- Ебать. Какая дерьмовая работа.-

(Fanculo.
Che lavoro di merda)

Mormorava sempre.
Tic.Tic.Tic.
Guardalo.
Si è innervosito!
Che stupido.

Si alzò dalla sedia, pronta ad abbandonare quella sordida stanza, dove il tempo era scandito solamente da quell'oggetto arrugginito in un angolo buio di quella cella, il dottor Popov alzò lo sguardo, sorpreso chiese come sempre:

-Dove vai?-

E lei, come d'abitudine, indicava l'orologio, sorrideva affabile, lanciava un ultimo sguardo a quei muri incrostati di muffa, dove ancora si riuscivano a leggere le parole di Oscar:

"Scappa e mettititi in salvo, è la tua vita! E' la tua vita! E può esser eterna!"

- E' finita l'ora della seduta.-

E solitamente non avrebbe aggiunto nient'altro, avrebbe girato sui tacchi e se ne sarebbe andata, ma quel giorno era speciale: era la sua ultima seduta.

Tic. Tic. Tic.
Addio, Ásfríðr
Mi mancherai
Addio, addio.

-Я счастлив, что больше никогда ее не увижу, доктор Попов.-

(Sono felice di non riverla mai più dottor Popov.)









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