Capitolo 2

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"Penso che potrei anche vivere in una casa così", disse Gunnar, il capo vichingo più giovane.

Uther, che stava addentando un pezzo di carne rubato dagli avanzi sul tavolo, cercava di ignorare il dolore al naso e, allo stesso tempo, reprimeva l'istinto di prendere a pugni suo figlio Hakon, che rideva sotto i baffi, ripensando alla scena a cui aveva assistito al piano di sopra, quando la ragazza bionda aveva spaccato il naso a suo padre con una testata.

"Giù le zampe, Gunnar. Questa casa ora appartiene alla mia famiglia, erano questi i patti", sentenzió Uther, senza nessuna intenzione di fare polemica, ma solo per il semplice gusto di punzecchiare il suo amico che considerava un mentore, o per lo meno, la persona che stimava di più tra tutta quella marmaglia di uomini che, come lui, lottavano da una vita intera per conquistare nuove terre più fertili e accoglienti della loro Danimarca.

Gunnar, figlio di Egil, deceduto in una battaglia contro i sassoni della Northumbria l'anno precedente, era l'unico della banda ad avere capelli corti e rossi, e un viso sbarbato e pulito; il ragazzo era anche uno dei pochi ad avere un'indole pensierosa e preponderante, invece che violenta e crudele, e questo era uno dei motivi per cui, nonostante la sua giovane età, tutti lo consideravano un degno erede del padre e apprezzavano molto la sua compagnia, sia in battaglia, che fuori dal campo.

Il rosso scrutava Hakon che, dopo lo scontro, era stranamente silenzioso e si aggirava guardingo tutto intorno alla stanza, perso in chissà quali pensieri. I due giovani andavano molto d'accordo, una leale amicizia li univa, anche se a volte, il loro rapporto diveniva conflittuale a causa del temperamento del giovane moro tenebroso, che in alcune occasioni si dimostrava tanto forte e valoroso nei combattimenti, tanto impulsivo e scellerato nella vita di tutti i giorni.

Gunnar era il suo esatto opposto ed era proprio per questo che, di tanto in tanto, i due ragazzi si scontravano a viso aperto; il rosso vedeva un grande futuro per il suo amico, voleva solo il meglio per lui, per cui a volte, si trovava costretto a riprenderlo come avrebbe fatto con un poppante in fasce. Anche adesso gli occhi di Hakon stavano viaggiando lontani, verso direzioni sconosciute e Gunnar avrebbe tanto voluto sapere a cosa stava pensando il suo imprevedibile amico.

"Dannazione!" imprecò Uther, riportando l'attenzione di tutti su di lui, mentre il suo naso riprendeva a gocciolare e lui cercava di tamponarlo con uno straccio lercio.

"Che cosa ti è successo?", gli chiese Gunnar, spostandosi dalla sedia sulla quale si era seduto, per permettere ai suoi uomini di portare via i corpi dei caduti, morti che sarebbero stati bruciati su una pira, così da dargli un degno passaggio verso quello che i cristiani chiamavano paradiso.

"Mio padre ha avuto uno scontro all'ultimo sangue con una guerriera davvero temibile", esordì Hakon al suo posto, beccandosi l'ennesima occhiataccia da parte del padre.

"C'è una ragazza al piano di sopra, una cagna inglese che mi ha tirato una testata mentre la stavo disarmando", risposte Uther, scatenando così anche l'ilarità del rosso.

Hakon sorrise di fronte al racconto del padre, anche se, in cuor suo, doveva ammettere che qualcosa in quella "cagna inglese" l'aveva destabilizzato. Quella ragazza dal viso angelico gli aveva scatenato dentro un sentimento che un guerriero come lui non provava da molto tempo: la pietà. Qualcosa in quegli occhi verdi gli aveva ricordato che anche un uomo come lui non era immune dal provare compassione, misericordia, per una ragazza così bella e così fragile, come una rosa appena sbocciata.

Un fiore che rischiava con tutta probabilità di essere calpestato e distrutto da guerrieri senza Dio come loro. Era a questo che andavano i suoi pensieri da quando aveva stretto delle corde sui polsi e sulle caviglie della loro prigioniera; il suo Io più umano, l'uomo che si celava dietro il soldato spietato, non poteva smettere di domandarsi cosa le sarebbe capitato.

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