Capitolo 3

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Le corde con le quali lo scagnozzo di Hakon aveva legato Irvine erano annodate saldamente intorno ai suoi polsi e le stavano bloccando la circolazione; ma la cosa peggiore non era il dolore fisico provocato da quei lacci stretti intorno alla sua pelle scorticata, bensì la presenza dell'uomo al quale era stata affidata la sua tutela. Il vichingo in questione, un omone alto e nerbuto, per un po’ l'aveva lasciata in pace, non degnandola nemmeno di uno sguardo, almeno finché non aveva iniziato ad annoiarsi e a maledire la prigioniera che gli era stata assegnata come un tesoro da proteggere, compito che gli impediva di scendere al piano di sotto e partecipare alla sbronza che si stavano prendendo i suoi compare, per festeggiare la presa della tenuta.

Per questo Sigfrid, questo era il suo nome, dopo un po’ aveva iniziato a importunare Irvine, cercando di divertirsi come poteva e di ammazzare il tempo. Se all’inizio le sue provocazioni si limitavano a dei semplici scherni, battute alle quali lei aveva deciso di non rispondere, ora il barbaro pareva non fosse più soddisfatto delle semplici parole, perciò aveva deciso di passare ai fatti, mettendo così Irvine nell’assurda posizione di desiderare il ritorno del suo ‘padrone’, Hakon.

“Allora, puttana, perché non mi rispondi, il gatto ti ha mangiato la lingua?”, le chiese l’uomo, prendendole il mento tra le dita, così da obbligarla a guardarlo in faccia.

“Lasciatemi in pace!” esclamò lei, disgustata da quelle dita sporche posate sul suo viso.

“Allora ce l’hai la voce. E cos’altro sai fare con questa bella bocca?”, le chiese lui, passando l’indice ruvido sul suo labbro inferiore, mentre i suoi occhi sbirciavano nella scollatura della sua camicia da notte.

Era mai possibile che gli uomini fossero sempre così meschini e pronti a ogni occasione a sottomettere una donna, per il loro puro piacere? Evidentemente tutti quelli che aveva conosciuto lei, sì; persino questo sottoposto stava seriamente pensando di disertare gli ordini ricevuti dal suo capo, pur di poter sfogare i propri istinti.

Irvine proprio non riusciva a capire, l’unica cosa che sapeva era che non avrebbe permesso a quell’orco sudicio di andare oltre, non le importava quali sarebbero state le conseguenze, in fin dei conti non aveva più nulla da perdere.

Era piuttosto strano per lei ribellarsi così risolutamente di fronte alle prepotenze di questi barbari, considerato che per due anni era rimasta prigioniera del marito e della sua indole sadica, senza fare nulla. Nel cuore di Irvine la dignità e l’orgoglio non avevano mai smesso di farsi sentire, ma se all’inizio aveva accettato i modi di Abraham senza lottare, era solo perché aveva sperato che prima o poi lui si sarebbe calmato e, perché no, che le avrebbe dato un po’ d’amore, cosa che naturalmente non era avvenuta. Così, quando anche lei si era resa conto che le sue speranze di un matrimonio felice erano solo le illusioni di una bambina costretta a crescere troppo presto, aveva finito per accettare il suo destino; di certo avrebbe voluto qualcosa di diverso dalla vita, ma, anche se non era stata una scelta sua, Irvine aveva promesso amore e fedeltà eterni ad Abraham, davanti a un ministro di Dio, e per una cattolica credente come lei, quello era un legame che niente è nessuno avrebbe potuto spezzare, anche se questo comportava la sua infelicità.

Perciò, anche se Irvine aveva messo a tacere il suo spirito indomito con il marito, questo non voleva dire che non ne possedesse uno; nessun vincolo divino le impediva ora di esercitare la sua insubordinazione nei confronti di questi uomini senza Dio che pretendevano di poterla sottomettere. Sigfrid si sbagliava di grosso se pensava che lei si sarebbe lasciata usare per i suoi comodi; così, avendo le mani legate davanti al busto, Irvine utilizzò la sola arma che possedeva: i suoi denti.

Quando il barbaro tornò da lei, dopo essersi allontanato per chiudere la porta della camera, le si piazzò davanti, iniziando ad armeggiare con la cintola dei pantaloni. “Se non urlerai e farai la brava, giuro che sarò delicato, puttana”, le disse lui, ormai a pantaloni calati, prendendole nuovamente il viso tra le mani, così da poter direzionare la sua bocca dove voleva che finisse, proprio sul suo membro, libero dai vestiti e a pochi centimetri dalla sua faccia.

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