Capitolo 4

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Erano trascorsi due giorni dall'agguato, due giorni di lavori interminabili e sfiancanti. La tenuta era stata ripulita dai residui del massacro compiuto dai vichinghi e Irvine era stata costretta a fare la sua parte; come una sguattera aveva lavato via il sangue dai pavimenti, si era data da fare nelle cucine e più di tutto, aveva cercato di tenersi alla larga dagli uomini che avevano invaso la sua casa.

La vista dei numerosi cadaveri le era stata risparmiata, di loro se n'erano occupati Hakon e i suoi; tutti i corpi erano stati caricati su delle pire e poco dopo gli era stato dato fuoco. L'unica traccia dello scontro era il sangue; liquido rosso, appiccicoso e viscido che ricopriva il salone dei banchetti da cima a fondo.

Avrebbe dovuto piangere per suo marito, diventato ormai cenere, ma nessuna lacrima aveva solcato il suo viso, non in nome della morte di quell'uomo maligno che aveva portato solo sofferenza nella sua vita. Il senso di colpa per il mancato lutto della sua perdita non le dava tregua, né di giorno né di notte; la sua impronta cristiana avrebbe dovuto spingerla a mostrare contrizione, ma il suo cuore non poteva che sentirsi sollevato da questa perdita.

L'unico pensiero che la affliggeva, oltre all'incertezza sul suo futuro, era il fatto che tanti uomini fossero morti in maniera così violenta. Nessuna dignità per loro, nessuna sepoltura.

Questa era la guerra, così le aveva detto una volta suo padre, tanto tempo prima, durante la visita a un villaggio vicino, distrutto e saccheggiato dai barbari. Sicuramente uomini come lui o come Abraham ne sapevano di più di lei, ma le dinamiche così cruente e spietate le risultavano veramente incomprensibili.

Un'altra giornata di lavori estenuanti era trascorsa; subito dopo aver cenato tutta sola in cucina, Irvine si era rifugiata nella sua stanza, alloggio che condivideva con il suo padrone Hakon. In un primo momento lei si era fermamente opposta all'eventualità di dormire nella stessa stanza con un altro uomo, ma non appena il bel vichingo le aveva prospettato ciò che sarebbe potuto succederle se fosse rimasta sola e incustodita, la prigioniera aveva compreso che accettare quel compromesso era la migliore delle possibilità. Inoltre, per sua fortuna, lui si era mostrato rispettoso nei suoi confronti; non aveva nemmeno provato a sfiorarla. Certo non si fidava di lui, motivo per cui aveva rifiutato di condividere il letto e aveva sistemato un giaciglio a terra, ai piedi del camino.

Qualcosa nella sua testa le diceva che non era di lui che doveva avere paura, ma di se stessa e dell'effetto che quella bellezza così sfrontata, e allo stesso tempo raffinata, aveva su di lei.

Il mondo come lo aveva conosciuto fino a quel momento non esisteva più e ogni sua certezza si stava sgretolando. Era viva, per lo meno, e nessuno le aveva fatto del male, eventualità che considerata la situazione, era una cosa veramente positiva e rincuorante.

Dopo aver buttato nel camino un paio di grossi pezzi di legna, Irvine si distese e approfittò del fatto che Hakon non fosse ancora rientrato in stanza per concedersi il lusso di dormire tranquilla senza la costante preoccupazione che potesse succedere qualcosa.

Il bel giovane ombroso rientrò in camera a tarda notte, ubriaco fradicio e barcollante. Le gambe vacillanti non lo reggevano né rispondevano ai suoi comandi, infatti, subito dopo essersi richiuso la porta alle spalle, fece un paio di passi per raggiungere il letto, ma i suoi movimenti sconnessi lo fecero inciampare e finire a terra, sopra qualcosa di morbido.

Irvine si destò di soprassalto, schiacciata da qualcosa o meglio da qualcuno. La prima cosa che incontrarono i suoi occhi furono le iridi cristalline di Hakon. La seconda cosa che percepì, oltre al suo corpo massiccio disteso sopra il suo, fu l'odore acre di birra.

Il guerriero dai capelli lunghi la fissava con una strana espressione; era chiaramente ubriaco e ciò che Abraham le aveva insegnato riguardo la pericolosità di un uomo sbronzo le fece provare paura.

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