Sono morto. (Okay, forse no.)

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Non voglio andare a scuola, ho chimica, la materia di Gwylim, alla prima ora, e non sono di certo dell'umore giusto per vedere colui che ha rovinato il mio compleanno. Ma naturalmente mio padre, Brian, non vuole sentire scuse e stavolta neanche l'altro padre è dalla mia parte. Quindi a malincuore esco di casa e cammino verso scuola. I miei amici sanno già cos'è successo, gliel'ho raccontato io stesso ieri sera, e non esitano a farmelo notare. Quando mi vedono entrare a testa bassa e con le cuffiette nelle orecchie, tutti i miei più stretti amici, quei pochi che sapevano di me e Gwylim, mi osservano ed anche se io non li sto guardando riesco a sentire quelle cinque paia di occhi su di me bruciare come se fossi un malato terminale. E quando mi sforzo ad alzare lo sguardo mi accorgo di come mi stanno guardando un sorriso amaro spunta sulle mie labbra, mi stanno compatendo. Non li saluto nemmeno, mi piacerebbe un po' di sostegno non che i miei amici mi giudichino silenziosamente. Gwylim non si presenta. Meglio così almeno non dovrò vederlo per un altro paio di giorni. La mattinata passa veloce, quasi non ricordo nemmeno cosa ho fatto fino ad ora. La pausa pranzo arriva e, come al solito vado a sistemare i libri nel mio armadietto. "Oh Joey!" sento dire ad alta voce, in tono canzonatorio. Frank. Oggi però non ho affatto intenzione di prenderle per l'ennesima volta. Sono troppo incazzato. Con tutti e con tutto. E Frank non sarà di certo un eccezione. "Joey che c'è? Il tuo ragazzo ti ha lasciato per caso?" ride mentre parla e non ce la faccio proprio più a trattenermi. Mi scaglio su di lui. Ma non riesco nemmeno a dargli un pugno che già mi ritrova a terra. "Joey! Ma che fai? Non si trattano così gli amici? Non è vero, ragazzi?" l'ultima parte la dice a voce più alta. Frank non è più solo, adesso anche i suoi tirapiedi sono lì in corridoio con lui. Ed io non sono più sicuro di essere in grado di "non prenderle". Calci e pugni arrivano e sono più dolorosi del solito. Stavolta penso di meritarmeli. Sì, me li merito. Decisamente. Sono stato così fottutamente stupido a credere che un uomo più grande di me di cinque anni potesse accontentarsi di me. Era così ovvio che non gli bastavo. Ha fatto bene a baciare Adam ieri sera. Soffro in silenzio. Continuano a lungo, non voglio che smettano. Vorrei morire in questo momento e la vista inizia ad appannarsi. Le costole fanno male, ancora più del solito, probabilmente una è rotta. Le gambe sono talmente doloranti che credo non riuscirò a camminare per un po'. Le braccia sono strette attorno alla mia testa, ma è inutile provare a proteggermi. Il cuore batte forte, la paura ed il terrore scorrono come mai prima d'ora. Sento il sangue scorrere a fiotto giù dal naso, ne assaporo il gusto in bocca e ne sputo un po', sento i tagli che mi hanno procurato bruciare come se ci avessero buttato dell'alcool sopra, sento le ossa una per una dolere più forte che mai. Poi tutto si ferma. E non sento più niente. Vedo solo nero per qualche secondo, non sento più cosa sta accadendo attorno a me mentre le braccia cadono pesanti sul pavimento. Quando finalmente riapro gli occhi noto solo una forte luce bianca. E' finalmente giunta la mia ora e a quanto pare chi muore come me finisce in Paradiso, anche se a me questo non sembra proprio il Paradiso. Gli occhi si rifanno pesanti dopo un paio di secondi e di nuovo cado nell'oscurità. Quindi forse sono morto o forse no. Ma ormai non mi interessa, se questa non è stata la volta decisiva sono sicuro che lo rifaranno, fino a quando non me ne andrò via per sempre. Provo ad aprire gli occhi nuovamente ed ora sembra tutto più vero e vivido. Riesco a sentire una mano sulla mia. Quando finalmente la luce bianca sembra sbiadire sempre di più capisco dove sono. In ospedale. Sono in un letto d'ospedale. Un lamento scappa dalle mie labbra e sento la mano stringere la mia ancora più forte. "Brian! E' sveglio!" riconosco la voce di mio padre. Voglio parlare, chiedere cosa mi è successo, ma è come se mi mancasse la voce. I miei genitori quindi iniziano a riempirmi di domande "Joe chi è stato?" è la prima tra tutte ed è mio fratello a farla "Ben..." è tutto ciò che riesco a dire. "Joe, ma perchè non ce lo hai detto prima? Avremmo potuto aiutarti." sento la rabbia e la disperazione dietro le poche parole di mio padre. "Perchè ti picchiano? Se non vuoi dirci chi almeno dacci un motivo." interviene l'altro e la sua esasperazione è ancora più ovvia. Non rispondo, e non solo perché non posso ma anche perché, forse, non voglio. Tutti attendono che io dica qualcosa, qualsiasi cosa. Qualcuno bussa alla porta ed entra. "Scusate l'interruzione ma dovrei parlare con il paziente." la mia famiglia esce e rimaniamo solo io e la dottoressa nella stanza "Allora Joe, come ti senti?" chiede lei accennando un sorriso "Come dovrei sentirmi? Uno schifo." rispondo io semplicemente. "Mi riferivo a come ti senti fisicamente ma se vuoi parlare del tuo stato psicologico va bene." continua lei "Anche fisicamente mi sento uno schifo. Mi fa male tutto. Mi dica, che cosa mi sono rotto?" chiedo io "Be' tanto per iniziare hai tre costole incrinate, il naso fratturato, hai subito una concussione, hai un polso fratturato e due dita rotte. Ora visto che io ho risposto alla tua domanda, potresti rispondere alla mia? E sii sincero. Che cosa ti hanno fatto?" io la guardo in silenzio "Va bene se non vuoi rispondere non ti obbligherò ma sappi che se hai bisogno d'aiuto non sei solo."

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