CAPITOLO 20

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Dopo quella chiacchierata, i giorni tornano a passare come se non fosse successo niente.

È venerdì e sto pulendo la casa. L'angolo più incasinato è quello di mio padre. Ci sono un sacco di giornali, giornalini e giornaletti. Faccio per prenderli per buttarli, ma mi cascano dalle mani e si distribuiscono davanti a me. Mi metto a raccoglierli uno per uno. Parlano tutti delle olimpiadi, medaglie italiane e straniere, record e fallimenti.

All'ennesimo giornale che prendo, mi blocco. In prima pagina c'è la squadra americana che festeggia. Incuriosita apro e c'è un intero servizio sulla finale del torneo olimpico di pallavolo. Una notizia su tutte: il team USA ha stravinto la medaglia d'oro grazie ad un trascinatore, Micah Christenson.

Leggo tutto l'articolo in cui racconta della partita, mangio le parole. Parla praticamente solo di come Micah abbia fatto "girare la palla" tra i suoi giocatori in modo eccezionale, da vero veterano della disciplina.

Poi c'è l'intervista all'mvp della finale, nonché miglior palleggiatore del torneo. Mi soffermo solo su una domanda: come ha fatto a trovare tutta questa cattiveria, dopo un finale di stagione così deludente, dove non sembrava proprio riuscire a trovare energie mentali per condurre una squadra alla vittoria?

"la sua affermazione è vera: non ero in grado di prendere per mano i miei compagni e portarli a vincere. Le delusioni a livello privato, purtroppo hanno prevalso. Un errore. So che non ricapiterà mai più. So che non lascerò mai più che accada niente del genere, ed è stata proprio questa competizione a farmelo capire. Le delusioni ci sono nella vita di tutti, ma sta a noi non abbatterci e non affogare insieme a loro, sta a noi lasciarle indietro e continuare per la nostra strada. Sta a noi capire quando conta soffrire e quando no. E voglio ringraziare i miei compagni di nazionale per avermi aiutato a capire che in questo caso non contava."

Ho letto tutto e non ci posso credere.

Certo, me lo merito, fino all'ultima parola, ma fa male. Rileggo ancora una volta le sue parole e poi presa dal nervoso strappo il giornale. Lo riduco in piccoli pezzi e piango, piango come era tempo che non facevo.

I miei genitori hanno assistito a tutta la scena senza intervenire. Mi asciugo le lacrime e mi rivolgo a loro:

<grazie per questi giorni, sono stata bene, ma domani parto. Vado a sistemare le cose giù e poi deciderò della mia vita. Vi farò sapere cosa farò. Vi voglio bene>

E li abbraccio forte.

Non ho organizzato niente. Ho preparato le valigie alla rinfusa e sono partita. Sono salita sul treno e mi sono fermata solo una volta raggiunta Civitanova.

Prima di ogni altra cosa decido di andare in società a parlare con la Presidentessa e sentire cosa serviva fare con il contratto.

Busso alla sua porta.

<avanti>

<buon pomeriggio> dico entrando

<oh ciao Laura. Come stai?>

<diciamo che si va avanti>

<immagino tu sia qui per il contratto..>

<esatto> sono di poche parole perché mi sento, per la prima volta, veramente fuori posto.

<bene, io ho parlato con tutto il team e l'idea sarebbe quella di riconfermarti. A dire la verità chi ti ha voluto più di tutti e ha addirittura minacciato di lasciare la squadra è stato il coach. Purtroppo lui non è qui oggi. Lui vorrebbe però parlarti prima che tu prenda qualsiasi decisione..>

<per me va bene, quando torna?>

<allora lui lunedì mattina sarà qui, perché i ragazzi hanno mattinata libera, quindi ti fisso un appuntamento con lui per le 10, ti va bene?>

<ok, certamente. Grazie mille>

Una volta salutata scappo via. Mi guardano tutti con uno sguardo compassionevole che proprio non sopporto, lo odio.

Prendo le mie valigie e torno verso "casa". Mi trovo davanti alla porta, completamente bloccata. Non ho il coraggio di aprire.

Sento girare la chiave nella toppa e la porta si apre. Non sono stata io però.

Mi trovo davanti Jenia che mi guarda come se avesse visto una cosa schifosa, come guardi il piatto che più ti fa ribrezzo.

<vattene da questa casa, non sei la benvenuta qui>

<lasciami spiegare, ti prego>

<vattene Laura. Non farmelo ripetere.>

<ti prego>

<sei una falsa, ci hai ingannato per troppo tempo. Ora torna dove sei stata in tutto questo tempo, ovunque tu sia stata, ma non ti vogliamo qui>

Delusa. Sono veramente delusa. Mi aspettavo troppo, forse pensavo che il mio aspetto dicesse abbastanza, ma a quanto pare no.

Sono anche tanto arrabbiata: io non sono mai stata una falsa. E certe parole, dette da Jenia, da un ragazzo che fino a poco tempo fa reputavo uno dei miei migliori amici, fanno ancora più male.

Le prime lacrime iniziano a scendere senza che io riesca a controllarle. Riprendo le valigie e mi incammino verso la casa del coach. Busso e mi apre sua moglie.

<ehi cara, entra pure. Chicco non è in casa>

<in realtà mi servirebbe un posto in cui dormire stanotte. Per domani cercherò una stanza in un hotel.>

<nessun hotel, ti fermi qui da noi fino a quando vuoi. >

<non voglio disturbare..>

<in cambio mi aiuterai con i bambini, dai. Così non ti senti in colpa>

<allora si, accetto. Lo sai che li adoro> dico felicissima.

<ok, ma prima parliamo un momento. Lo sai che sono una mamma io>

<lo so, lo so. È solo che è complicato>

Vado a lasciare le valigie in camera e poi ci sediamo davanti ad un te caldo e le racconto tutto, fino alla fine. Fino a Jenia.

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