Capitolo 5

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Gavriel

2-3-4 giugno, in a dark and desert street.

Quando, finalmente, raggiungo la porta di casa, allungo un braccio per aprirla, e mi ci rovescio, letteralmente, dentro.
Sto correndo per le scale. Il giubbotto freddo, umido di pioggia, mi appesantisce, facendomi tremare le gambe un po' di più ad ogni gradino.

Mentre faccio scattare la serratura dietro le mie spalle, mi accorgo che non riesco più a respirare. Spalanco la bocca per inghiottire più ossigeno, ma continuo a sentirmi soffocare, come se tutto ciò che riuscissi ad annaspare fosse sabbia che va man mano a riempirmi i polmoni, a sigillarmi la gola.

Raggiungo la mia stanza e mi lascio cadere sulle piastrelle gelate della stanza, con lo sguardo chiazzato di macchie scure, mentre cerco di tenere insieme disperatamente, senza riuscirci, tutti i pezzi del mio cuore, che continua a rompersi ad ogni battito accelerato.

Steso, stretto fra l'armadio e la scrivania, con gli occhi fissi contro un soffitto pallido quanto me, cerco di riprendere il controllo. Cerco di concentrarmi sul mio respiro. Lascio che i minuti mi scivolino sopra come gocce di pioggia su un impermeabile.

È successo di nuovo: nonostante tutti i miei sforzi resto comunque un mostro senza via di redenzione.
Ogni volta che condivido con qualcuno il mio legame con l'altro mondo finisce sempre male, dovrei smetterla di giocare con il fuoco, di mostrare alla gente cose che non capiranno.

Non posso continuare così, il mondo non è fatto per conoscere certe cose, eppure non vedo via d'uscita.
Io sono questo: un messaggero di morte e distruzione.

E poi, ecco ritornare le vecchie abitudini; come se potessi concentrare tutta la forza in un singolo punto del mio corpo, alzo il braccio sopra la mia testa e sferro un pugno fortissimo contro il muro.

Ecco.

Non sento più il freddo del mio giubbotto zuppo nel quale mi sono avvolto, nascondendomi, e nemmeno il ticchettio delle gocce di pioggia contro il vetro della portafinestra poco distante da dove sono steso. Sento solo il sangue caldo che traccia una ragnatela rossa sul dorso della mia mano, aprendo con un bruciore intenso dei tagli sulle mie nocche.

Adesso, finalmente, ho un motivo per piangere. La mia gola brucia, le mie labbra sono impastate di lacrime, di sale, e in bocca un sapore amaro fa contrarre i lineamenti del mio volto stanco in una smorfia.

Ma non piango solo per me, piango per tutti quelli che, come Alex, ho distrutto in questi anni.
Avrei potuto fare come tutti gli altri miei 'colleghi', dire alle persone ciò che vorrebbero sentirsi dire; così almeno si sarebbero sentite in pace con sé stesse e io avrei guadagnato alle loro spalle.

"Sua figlia ha vissuto una vita felice, se n'è andata ricordando tutto l'amore che le avete donato in ogni secondo della sua esistenza"
"David non ha sofferto, la morte è stata la fine migliore per lui"
"Continuerà a vegliare su di voi..."

La mia vita sarebbe più facile.
Ma non ce la faccio. Io ho bisogno di dire la verità, di far capire alle persone ciò che i frammenti d'anima hanno provato, altrimenti sarebbe come mentire a me stesso.

Ogni volta che entro in contatto con uno di loro è come se vivessi un'altra vita nel giro di qualche secondo. Creano un solco indelebile nella mia anima, impossibile da ignorare.

Sferro un altro pugno contro il muro, con l'altra mano. Appoggio le nocche crepate sulla bocca, lascio che il sapore metallico del sangue mi faccia venire voglia di sputare dal disgusto.

Becoming Death, non sfidare la morteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora