Capitolo Tre.

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Avevo giurato che eri onesto, e pensato che eri buono.

Tu  che sei nero come l'inferno, scuro come la notte

[WILLIAM SHEAKSPEARE, sonnetto CXLVII]

Sto scappando, ma non so da cosa. In tutti i casi ho raggiunto un vicolo cieco; è notte e non riesco a distinguere niente. Mi giro e vedo una sagoma nera che avanza sulle mattonelle luride e vedo che sta sanguinando. 

Sento un suono acuto e metallico. A terra accanto a me trovo un pugnale d'argento. D'istinto mi guardo le mani e noto che sono dello stesso colore delle gocce sul terreno: sono imbrattate di sangue; ha un colore molto scuro, troppo scuro per essere umano. Di colpo indietreggio sbarrando gli occhi e mi scontro con un muro gelido. L'uomo mi fissa con uno sguardo vacuo e di colpo cade a terra. Così, silenziosamente, come se di colpo fosse scivolato in un sonno leggero, senza provare troppo dolore.

Sono diventata un'assassina.

Non può essere reale, non deve esserlo.

Trattengo il respiro e scappo via, nella direzione da cui sono venuta. Mentre passo davanti al cadavere non posso fare a meno di notare che il corpo dell'uomo, prima del tutto sconosciuto, si è trasformato in qualcosa a me molto familiare.

Di colpo mi fermo.

Me stessa... ma più mi fisso più capisco di non riuscire a riconoscermi: indosso un vestito bianco, lungo, di seta. La gonna è tutta aperta come un ventaglio sulla pietra e il corpetto, ovviamente molto stretto, è imbrattato di sangue fresco, in continua espansione. Ma non è il vestito che mi preoccupa, non è trovarmi morta. Quello che più mi spaventa è che il sangue sta sgorgando dall'interno, senza aver aperto uno squarcio sul vestito. La ferita è stata aperta dall'interno.

Scappo via.

Qualcuno mi chiama.

Corro più veloce.

Mi sento scuotere.

Tutto quello che mi sta attorno inizia a smaterializzarsi. Finalmente grido.

***

<<Era solo un incubo>> una voce melodiosa mi penetra nelle orecchie <<non preoccupatevi, è tutto finito>> apro gli occhi e  sopra di me piomba uno sguardo dorato.

<<Io... >> comincio, ma lui non mi lascia finire. Mi aiuta a rialzarmi e scopro di essergli caduta sulle ginocchia. La vergogna mi assale di colpo e appoggio la testa sul finestrino gelido.

<<Io... Voi... dovete scusarmi>> non riesco ad aggiungere altro.

Lui mi guarda inclinando la testa e un sorriso gli illumina il viso

<<Non preoccupatevi signorina, succede tutti i giorni che le donne cadano ai miei piedi... o meglio, alle mie ginocchia!>> commenta lui ironico. Non riesco a trattenere una risatina liberatoria. Una risatina. Io?!?.

<<Dunque, cosa stavate sognando, se posso chiedere?>> domanda esitante. Non so come mai, ma c'è qualcosa nel suo sguardo che mi spinge a fidarmi di lui:

<<Stavo scappando -non so ancora da cosa- e mi sono ritrovata in un vicolo cieco...>> mi blocco. Non sono sicura di poter raccontare i miei sogni ad uno sconosciuto.
Lui capisce e dice:

<<Se è un sogno troppo personale non siete obbligata a raccontarmelo>>. Decido di confessargli tutto, senza tralasciare nemmeno la parte del trovarmi morta. Al termine del racconto, deglutisco a fatica e mi aspetto che mi dica che sono pazza, che è uno dei sogni più stupidi che abbia mai sentito, come qualsiasi persona normale avrebbe detto.

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