Capitolo Nove.

48 11 0
                                    

Se in questo momento mi chiedessero come mi sento... non saprei proprio cosa rispondere. La mia mente è invasa da un insieme di emozioni annodate fra loro. Incertezza, rabbia, tristezza, confusione, stupore.

Come se qualcuno le avesse prese e buttate in qualche modo nella mia testa, e queste si fossero mischiate fino a formare una melma scura.

Non so cosa pensare. Non ho ancora abbastanza informazioni per poter costruire un quadro dettagliato della situazione.

Sto per aprire il libro di Dickens quando sento che la porta dietro di me si apre ed io terrorizzata mi giro: mio padre mi fissa a bocca aperta dallo stipite della porta

<<Padre io stavo solo...>> inizio, cercando invano una scusa.

<<Non voglio scuse. Per una volta pensavo davvero che tu fossi riuscita a dimenticarla, ma a quanto pare mi sbagliavo.>> scuote la testa, e la sua espressione mi spezza il cuore.

<<Come puoi anche solo pensare che sia possibile dimenticarla?>> gli chiedo con voce spezzata.

<<Yuki... sono passati ormai quasi sei anni da quando è morta, eppure tu non sei ancora riuscita ad accettarlo. Io... non so più cosa fare con te.>> mi dice con tono deluso.

<<E dimmi. Tu hai accettato la sua morte?>> gli domando, e sono quasi spaventata dal tono tagliente che ho assunto.

<<È diverso... io ero suo marito.>> dice, quasi sussurrando.

<<E io sua figlia!>> gli dico quasi gridando. <<E non puoi fingere che vada tutto bene, perché non è così! E tu lo sai meglio di me! A volte vorrei provare a vivere come te, nascondendo il dolore, facendo finta di stare bene. Ma questo tuo modo di fare mi disgusta. Mi chiedo davvero come tu faccia a vivere così.>>

Lascio che le mie parole si depositino nella sua mente e mi accorgo troppo tardi di quello che ho detto.

<<Davvero pensi che mi piaccia vivere così? Tu non sai niente. Nemmeno la conoscevi tua madre... stupida bambina. Ma ormai penso tu abbia capito come stanno davvero le cose. Non serve mentire ancora. Perché pensi che ti tenga ancora sotto la mia ala, anche se non sei mia figlia? È ovvio che lo faccio per lei, per tua madre.>> scuote la testa. <<non mi interessa niente di te...>>

Queste parole mi colpiscono il cuore come piccoli aghi, che affondano sempre di più in profondità. Mi guardo il petto e sono sorpresa di non trovarlo sanguinante.

Lui si avvicina ma io mi allontano come un animale selvatico. Non voglio che mi tocchi. Mentre mi avvicino alla porta quasi cado, ma tengo lo sguardo fisso sull'uomo che ho sempre creduto essere mio padre. Lui si siede sul letto e si prende la testa fra le mani.

E io?

Io scappo.

Scappo lontano da altre menzogne.

Lontano da altre falsità.

Lontano dal mondo.

Per uscire devo passare dalla sala da pranzo, ma non mi interessa. Non mi interessa più niente. Non mi importano gli sguardi di disapprovazione di Catherine. Nemmeno la preoccupazione dipinta sul viso di Jonathan.

Sono stanca di fingere.

Una volta sulla strada mi tolgo le stupide scarpe che mi hanno obbligato ad indossare e quando i miei piedi affondano nella neve mi sembra quasi di essere ritornata in Canada, anche se qui a New York la neve è solo una poltiglia grigia.

Ma non mi preoccupo nemmeno di quello.

Quello di cui ho bisogno ora è solo la sensazione di libertà, e per ottenerla non posso stare ferma.

Perciò inizio a correre. Corro senza nessuna meta, non ne ho bisogno. La mia anima sa esattamente dove andare. Lontano, sembra sussurrarmi.

Corro senza curarmi dei polmoni che urlano contrari.

Dopo quella che mi sembra un'eternità sono costretta a fermarmi; mi guardo attorno quasi estranea al mio corpo: sono sul ponte d Brooklyn.

Ormai guidata solo dalla mia anima, mi avvicino al bordo.

Mi sembra di essere ritornata bambina mentre l'acqua mi chiama e senza pensarci due volte apro le braccia e mi butto.

Durante la caduta mi sento come un uccello che è stato appena liberato dalla gabbia che, animato dall'istinto, vola via, lontano dagli umani.

Il tempo si blocca, e mi domando se è davvero questa la sensazione della libertà.

Poi però la forza di gravità mi attira a terra e quando cado nell'acqua mi sembra quasi di spaccare la sua superficie in mille pezzi e mentre affondo nell'oscurità, nell'ignoto, mi sembra di essere rinata.

Non mi oppongo nemmeno alla corrente, che sembra volermi portarmi via con sé.

Affondo la testa nell'acqua, ma non trattengo il respiro; i miei polmoni in pochi secondi si riempiono di quel liquido scuro.

Sto lentamente soffocando. Ancora qualche respiro...

Cerco di aprire gli occhi un'ultima volta e la vita sembra scusarsi con me concedendomi di vedere la luna.

Poi il buio

UnknownDove le storie prendono vita. Scoprilo ora