Capitolo Sette.

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Non mi ricordo che Jonathan mi stava aspettando fuori dal camerino finché non mi ha chiamata per sapere se stavo bene.

La sarta del negozio in dieci minuti era riuscita a chiudermi il corsetto e quando aveva finito mi ha scrutato per qualche minuto, per poi sorridere soddisfatta ed andare alla ricerca di uno specchio.

Quando è tornata ne trascinava uno enorme a fatica, e ho dovuto aiutarla a non perdere l'equilibrio.

Poi senza dire una parola è uscita e sono riuscita a sentire che sussurrava a Jonathan che era fortunato ad essere fidanzato con una come me.

Io stavo per ribattere consapevole del suo errore, ma sono rimasta senza fiato di fronte alla mia immagine riflessa dallo specchio.

A stento riuscivo a riconoscermi. Non ricordavo di essere così... così "adulta". Nella mia mente si era fermata l'immagine di una me dodicenne. L'età che avevo quando mia madre morì. Per questo sono rimasta così senza fiato di fronte a tutto questo. Tutto d'un tratto sento un colpo secco allo stomaco che mi fa mancare il respiro.

Deve avere stretto troppo il corsetto, penso. Ma una voce dentro di me mi contraddice.

Posso assicurarti che non è colpa del corsetto. È la paura.

E di cosa dovrei aver paura?

Di diventare troppo adulta da dimenticarti cosa significa amare davvero.

Anche gli adulti sanno amare.

Sì, ma non nel modo in cui riescono a farlo i bambini e i giovani. Gli adulti pensano sempre a quello che succederà dopo, a quello che accadrà dopo la loro morte o delle persone che amano. I bambini invece si godono l'attimo. Sanno assaporarlo come solo pochissimi adulti sanno fare. E poi si innamorano di quelle piccole cose di cui a volte gli adulti hanno dimenticato l'esistenza.

Quindi io avrei paura di crescere?

Esattamente.

Il tempo sembra congelarsi dall'angolo del camerino, e riesco a tornare alla realtà solo dopo che Jonathan mi ha chiamato più volte. Sto per rispondergli quando lui piomba nella stanzetta con aria preoccupata.

<<Yuki...>> inizia. < cosa vi succede? Non rispondevate.>> mi fissa con un'intensità tale che sento un brivido risalire la mia colonna vertebrale.

<<Sto... Sto bene.>> balbetto. Poi mi alzo e gli sorrido. <<Non dovevate preoccuparvi>>

Lui sembra indeciso se credermi o no, ma alla fine lascia perdere. Fa scorrere i suoi occhi su tutto il mio corpo, ma non in modo volgare. Lo fa come accarezzandomi. È... dolce.

<<Dovreste prenderlo quel vestito. Vi sta magnificamente. Dico davvero>>

<<Piace anche a me, ma non oggi. Non mi sento molto bene.>> gli rispondo.

<<Oh, d'accordo. Vado a cercare la sarta per aiutarvi a toglierlo.>> mi comunica uscendo dal camerino.

Non appena mi lascia sola la paura ritorna come uno di quei mostri che da piccoli si pensa siano nascosti sotto il letto o nell'armadio. Le altre persone sembrano spaventarli, ma non appena queste se ne vanno, loro escono dal loro nascondiglio più forti di prima.

Quando da piccola di notte avevo paura dei "mostri", mi rannicchiavo sotto le coperte, portandomi le ginocchia al petto e singhiozzavo più piano che potevo. E per quanto mi sforzassi di fare meno rumore possibile, mia madre se ne accorgeva sempre e veniva a rassicurarmi.

Odio ammettere che a volte lo faccio anche adesso, come se sperassi che in qualche modo mia madre possa venire per un ultima volta ad abbracciarmi, a sussurrarmi che lei mi proteggerà sempre, anche quando io penserò di essere da sola. Eppure non è mai tornata.

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