Capitolo Quattro.

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Remiamo, barche controcorrente, risospinti senza sosta nel passato.

[Francis Scott Fitzgerald]

Ho già scaricato i miei pochi bagagli, non perché non ne avessi, ma perché avevo deciso di buttare tutto, nella speranza di poter ricominciare davvero da capo, nella speranza di tagliare definitivamente i fili che fino a qualche ora fa collegavano il passato al presente.

La nostra nuova abitazione è fredda e buia, infilata in una delle tante strade di Manhattan, che ho cercato di memorizzare, nel caso dovessi pensare di scappare. È alta tre piani e la luce sembra proprio non voler entrare da nessuna delle finestre. La mia nuova camera aveva pure le finestre sbarrate da tavole di legno, che senza esitare ho subito strappato via. Mi alzo dal letto su cui ero seduta e passo le mani sulle pareti: sotto polvere e sporcizia trovo dei resti di un affresco che raffigura una bellissima donna con i capelli rossi che le ricadono sulle spalle, creandole un'aureola rosso sbiadito. Assomiglia a mia madre.

Rimango a fissarla rapita per quella che sembra un'eternità, poi sento bussare alla porta e prima che io possa rispondere, la sento aprirsi con uno scricchiolio e girandomi vedo mio padre che, passando lo sguardo su di me, nota il dipinto. Prima si mostra sorpreso, ma poi lo vedo sopprimere con una maschera di sorriso tutti i sentimenti che un momento prima gli erano passati sul viso. Ormai fa sempre così. Non so se lo faccia per gli altri, per non farsi vedere debole, o per se stesso, per evitare che i ricordi troppo dolorosi prendano il sopravvento.

Io, invece, mi perdo troppo spesso nei ricordi, fino a confonderli con la realtà, a volte.

<<Allora, come vi sembra la stanza Yuki? È di vostro gradimento?>> mi domanda.

<<Forse dopo una breve spolverata...>>gli rispondo, soffiando sopra uno dei pochi mobili e creando una grossa nuvola di polvere. Un angolo della sua bocca su alza in modo sghembo. Poi si siede su una poltrona vicino alla finestra e mi indica il letto, per invitarmi a sedere. Si schiarisce la voce e inizia:

<<Catherine mi ha detto che dovremmo parlare della vostra condotta.>> mi fissa aspettando che io dica qualcosa ma vedendo che non intendo proferire parola continua.

<<Voglio dire, spero che voi abbiate capito che qui non siamo più nella nostra villa nella periferia di Toronto, a pochi passi dal bosco.>> fingo di non aver capito, facendo un'espressione confusa, quando invece so benissimo dove vuole arrivare.

<<Queste strade sono popolate da persone non tanto perbene, e, dato che non siete ancora sposata, esigo che non usciate senza essere accompagnata.>> detto questo si alza e va diretto alla porta per poi fermarsi sulla soglia indeciso:

<<Penseremo anche a ricoprire il dipinto. Non si abbina alla stanza.>> dice con una voce ferma che non avrei immaginato, dato il modo con cui ora sta sui suoi piedi. Non faccio nemmeno in tempo a girarmi verso di lui che sento già sbattere la porta.

Spaesata dal discorso di mio padre, decido di ribellarmi, ma in modo così attento che non crederebbero alla mia fuga nemmeno con prove certe. Decido che ogni notte andrò in esplorazione della città, da sola. Così, dormendo molto meno, forse riuscirò a fare notti senza sogni, che mi tormentano incessantemente.

Ho chiuso con i sogni.

Ho chiuso con il contegno.

Ho chiuso con i sentimenti. Non c'è più spazio.

***

Dopo aver deciso che l'unico modo per non dar dei sospetti è di farmi vedere stupida e banale, decido di scendere per la cena. Le domestiche arriveranno domani, quindi la casa è identica a prima e, sebbene siano passate ben tre ore, Catherine non ha fatto altro che dondolarsi da una stanza all'altra gridando di aver dimenticato qualsiasi cosa riguardo la cura della sua impeccabilità.

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