Capitolo Dieci.

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Vi è solamente un problema filosofico veramente serio: quello del suicidio. Giudicare se la vita valga o non valga la pena di essere vissuta, è rispondere al quesito fondamentale della filosofia.
(Albert Camus)

<<Yuki!>> mi chiama qualcuno. <<Yuki ti prego apri gli occhi!>> mi supplica con voce straziata.

Ora riconosco il timbro della persona: è Jonathan.

Ci sto provando, vorrei gridargli, ma in questo momento il mio cervello sembra scollegato dal resto del corpo.

In tutti i casi la voglia di morire di prima è scomparsa e ora ho davvero paura di essere morta.

Ci sono persone che dicono che dopo la nostra morte la nostra anima si libererà dal corpo per raggiungere il cielo, e che in quel momento saremo invasi dalla luce.

Ma adesso l'unica cosa che vedo è l'oscurità. Un'interminabile e infinita distesa di oscurità, senza vie di uscita. Non provo nemmeno più dolore.

L'unica sensazione che provo in questo momento è la caduta. Di nuovo. E come al solito ho gli occhi chiusi.

Ma quello che la mia mente non sa, è che questa volta riuscirò ad aprire gli occhi.

Adesso, dico a me stessa, ho il coraggio che serve per farlo.

Non lo faccio per qualcuno, nemmeno per me stessa. Lo faccio perché sento il dovere di farlo.

Così mi servo delle ultime forze che mi rimangono e mi costringo ad aprire gli occhi, e in quel momento capisco.

Quella luce di cui tutti parlano, non ci si presenta alla nostra morte, ma quando riusciamo a sopravvivere. E ora mi sento così stupida di averla sprecata quasi per un capriccio.

Cerco di alzarmi sui gomiti e sputo il resto dell'acqua che mi è rimasta in corpo, accompagnata da dei conati. Sembra che Jonathan si sia buttato per salvarmi, e che sia riuscito a nuotare fino alla piccola spiaggia che si è formata sulle sponde dell'East River.

Ora lui mi fissa con espressione straziata in viso. Entrambi siamo fradici ed è stato costretto a strapparmi il corsetto per farmi il massaggio cardiaco. Quando me ne accorgo avvampo fino alle ossa e cerco di coprirmi con i resti del vestito. Quando se ne accorge riesce a stento a trattenere una risata.

<<Perché ridete??>> gli chiedo irritata.

<<È ridicolo che la prima cosa a cui pensate dopo aver rischiato di morire sia coprirvi... e poi ormai ho già visto tutto.>> dice con una voce che gronda di sarcasmo.

<<Di certo questa vostra affermazione non aiuta.>> borbotto.

Poi il silenzio cade fra noi, e penso che lui si aspetti che parli, ma proprio non ne ho voglia. Così si schiarisce la voce:

<<Sentite, non ho intenzione di chiedervi il motivo per cui vi siete buttata. Tanto so che non me lo direte. Ma credetemi, tentare di suicidarsi non risolverà niente. Non abbatterà i problemi. E capisco che ci sono momenti in cui pensiamo che la via più semplice sia farla finita, ma fidatevi, non è così.>> mi dice.

Io tengo la testa bassa, quasi vergognandomi della mia scelta. Poi scorgo che la pelle interna del bracco sinistro è piena di cicatrici, e inizio a capire.

<<È successo anche a voi?>> gli domando. D'un tratto la curiosità mi assale e non riesco a contenermi.

<<Di cosa state parlando?>> mi chiede aggrottando le sopracciglia.

<<Non voglio essere invasiva, ma... dalle vostre parole sembra che ci siate passato anche voi. Sento il dolore del vostro tono di voce, e non posso fare a meno di chiedermi se...>> mi blocco.

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