1- La filastrocca dentro il quadro

1K 53 285
                                    

Ero solo un bambino la prima volta che misi piede su di un palco.

La magia della scena, il gioco delle luci fissate alle nere aste appese al soffitto, creando un caleidoscopio di colori abbaglianti, mi aveva stregato come il migliore degli incantesimi, rendendomi infantile viandante in un quadro solitario, affisso a una parete e dimenticato, ma che aveva colto la mia attenzione, rendendomi partecipe delle sue trame.

Il trucco dei sipari, delle quinte, delle musiche sembrarono rapirmi occhi e orecchie rendendomi immobile il corpo rimasto stazionario di fronte a fila e fila di poltrone rosse avvolte dal buio della vuota stanza, fissando lo spettacolo che offrivo loro, avvolgendomi in respiri di silenzio.

A quel tempo non sapevo ben definire cosa provassi: le emozioni erano un concentrato esplosivo di curiosità mista ad allegria, a grinta, coraggio e spirito di scoperta grazie al quale ero riuscito a entrare in quel teatro parzialmente abbandonato, a cui una piccola équipe di tecnici stava ripristinando le luci, ma persino adesso, con il senno di poi, non saprei raccontarlo. Era energia, allo stato puro. Era grinta. Forza. Sicurezza di sé nel sentirsi tutti quegli occhi addosso. E pure fragilità, perché le luci, fissate in alto raggiungendo al massimo la visione dei tuoi occhi a un tratto ti lasciavano solo, nudo su quel palco, e non era facile in quel momento nascondere la vera natura di sé stessi, obbligandoti quindi a rivelarti.

Era una droga, e per questo ho continuato a cercarla negli anni.

Per provare ancora l'ebrezza della scoperta. Per sentirmi ancora vivo di fronte a molti occhi, protagonista di un'artificiosa scena. Per provare l'emozione di essere a un tratto soli. Per vivere di arte e cimentarmi in nuovi panni, nelle vesti di Giulio Cesare, di Tebaldo, Orazio, Nerone, Paride ... per essere qualcuno che non ero riuscito ad essere, elogiandone le gesta. Per finire ad indossare molte maschere e molte vite, pur di non far trasparire, ad un certo punto negli anni, la mia.

Era sempre un gioco, un bel gioco di scambio al quale partecipavo. Le battute erano la mia arma, feroci spade che attendevano il colpo di altre, fino ad arrivare ad un verdetto di giudizio. Combattevo con il corpo, la testa, la voce, e alla fine, inevitabilmente, anche con il cuore. L'Amleto era la mia poesia e la mia rovina, il confronto con la morte il mio giudizio divino. Poi a quel gioco parteciparono altri, ed io non ero solo. D'un tratto ero circondato da grandi eroi ma era la ricerca di quella scena, vissuta da bambino, a cui aspiravo, tenendo alla solitudine come al mio dono più prezioso.

Recitare poesie non era un problema.

Rendere propri dei monologhi ... richiedeva un forte sforzo di immedesimazione, ed una grande forza di volontà.

Improvvisare senza un copione... era pura adrenalina. Fingere, nelle prove, che cadessero piccole gocce d'acqua dal soffitto del nostro cielo decorato, e che quelle ti bagnassero, entrandoti nei vestiti, raggiungendoti con la loro umidità fin dentro le ossa... era la parte che mi riusciva meglio, sentire gli ordini d'un tratto venire impartiti, comandandoci i finali ma dandoci al tempo stesso la libertà nell'eseguirli... mi lasciava spazio per la vera recitazione, la sola in grado di farmi crescere.

Per questo sono qui, su questa pericolante sedia che lo staff ci ha offerto, vestito in nero e con le mani giunte, a fissare il rivestimento in stoffa sul pavimento quasi fosse la sola cosa in grado di sostenermi, nel bene così come nel male.

«Credo che la sua morte sia stata la più improvvisa tra i rami della mia famiglia. Sicuramente era avvenuta così come era stata richiesta, niente stupido attacco di panico o di cuore, niente gravi malattie, solo il semplice sonno.»

Espiro profondamente cercando equilibrio nel cuore, nella testa.

«Ci ha lasciati così, senza spiegazioni o dettagli. Il solito bastardo, voleva che ci sbranassimo. Ma noi siamo più forti adesso. Credo... credo che la famiglia sia un posto migliore ora, privata della sua presenza, ma ritengo anche che la piccola Janett soffrirà, percependo la sua mancanza. Quella bambina è sempre stata un portento, non si riusciva mai a tenerla ferma. È curiosa, geniale, piena di sorrisi. Risulta sempre in grado di vedere il buono in ogni cosa e non mi sorprende che riuscisse a vederlo ancora una volta... persino in lui.
Sarà la sola a rimpiangere la sua morte.
Il resto di noi verserà piccole lacrime amare al suo funerale, quando il becchino sigillerà quella tomba per troppo tempo rimasta vuota, chiudendo anche tutti i problemi, insieme a lui» concludo, e dai miei occhi si preparano a cadere lente e artificiose lacrime.

Esiliato dal tuo cieloDove le storie prendono vita. Scoprilo ora