C'era una volta

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C'era una volta, in una piccola città, una ragazza. Era cresciuta in una bella famiglia, di sani principi. Il suo primo 8 marzo l'aveva celebrato a otto mesi, con una mimosa sulla culla. L'avevano educata con l'idea che essere donna o essere uomo sono opzioni che la natura offre alla vita, non una condizione problematica. I primi segnali che non era completamente vero non li colse subito, era troppo radicato in lei il sorriso. Aveva trovato piccoli orchi, che avevano provato a mettere occhi e mani dove non avrebbero dovuto, ma il caso o la buona stella l'avevano protetta. Poi da ragazzina cominciò a doversi guardare le spalle. Non era una Lolita, ma dovette imparare che girare di notte da sola è pericoloso, che una fuga strategica non è disonorevole e che la vecchia regola di non accettare passaggi dagli sconosciuti purtroppo ha un motivo valido di esistere. Era una tosta, non si faceva scoraggiare. Cominciò a capire che l'8 marzo non era solo ricordo. Doveva per forza di cose essere ancora lotta. Si innamorò. Di un ragazzo stupendo, un artista, un giocoliere delle parole. Per questo fu chiamata puttana, ma scrollò le spalle e continuò ad amarlo con naturale gioia. Decise che sarebbe stato bello sposarlo e lo fece. Da loro ognuno si aspettava che: LUI guidasse l'auto, portasse lo stipendio a casa, ne capisse di lavori di riparazione e bevesse birra; LEI tenesse in ordine la casa, facesse un piccolo lavoro per non buttar via la laurea, cucinasse e fosse carina con tutti. LORO decisero che a lei piaceva di più guidare, quindi lui l'avrebbe fatto solo quando ne aveva voglia. Entrambi avrebbero lavorato come e dove gli andasse e la casa poteva anche andare a scatafascio. Lei avrebbe fatto piccoli lavoretti di riparazione perché, accidenti, era maledettamente brava a farlo e magari lui era un fenomeno nel fare il caffè. Lei lo beveva solo quando lo preparava lui. E lui glielo portava a letto. Roba da sposarselo ogni giorno, no? Lei era brava a cucinare, ma era troppo bello lavare i piatti assieme. Così li considerarono strani; se ne fregarono. Lei lavorava, faceva un "lavoro da uomo", nel settore finanziario. A volte le persone andavano da lei per farsi spiegare tutto, per farsi consigliare, però poi andavano a concludere il contratto con un maschio, perché dopotutto in certe cose è meglio, vero? Ma era brava nel suo lavoro, quindi riusciva comunque. Poi in un viaggio di lavoro scoprì di aspettare un bambino. Non riuscì ad aspettare, al suo uomo lo disse al telefono. Peccato che poi, una volta a casa, si sentì male. Quando tornò al lavoro,dopo l'aborto, il suo capo la accolse, davanti a chiunque, dicendole che era contento fosse tornata dalle vacanze. Lei lo zittì: non accettava simili mancanze di rispetto, da nessuno. Dopo alcuni mesi, una nuova vita si fece strada. Fu una gravidanza difficile, ma la felicità era alle stelle; molto meno quella del capo, che si premurò di far sapere a tutti che si stava approfittando del momento per svagarsi. Tornò subito al lavoro, lasciando la bimba alle cure familiari: per chi non lo sapesse, in Italia il nido è un lusso. Ma ogni malattia, ogni assenza – non retribuita – era un passo in più nell'unica direzione che il capo conosceva. Sei inaffidabile. Sei troppo distratta. Sei assente. Fu la seconda gravidanza a far capire al capo che la sua scrivania poteva essere messa in fondo alle scale. Tanto, che necessità hai di una scrivania? Ma lei era una tosta e aveva un uomo tosto accanto. Decise che quello schifo era troppo, che poteva scegliere. Fece il gioco sporco, si fece offrire soldi per andarsene. Scelse di non subire più mobbing, ma di mettere lo smalto alle unghie guardando il capo in faccia, bene in faccia, chiamandolo alle sue responsabilità con sfrontata arroganza, forse. Dicendogli chiaro e tondo che vivere una vita come la sua le faceva schifo. Decise di scegliere, scegliere la famiglia non come ripiego ma come priorità. Affermando che si può lavorare mezza giornata, non è disdicevole, che esistono molte vie per essere realizzati, non ultima la sua penna, che era sempre stata pronta a cogliere le sfumature della vita. Lui non brontolava se lei scriveva mentre stavano i piatti da lavare. Ora vive felice e contenta. Non fa un lavoro che le piace, fa una vita che le piace. È rispettata, è amata. Educa due bimbe alla libertà di scegliere. Chi essere, cosa fare, cosa amare. Con accanto un uomo che la tiene per mano per starle affianco. Un uomo che come modelli alle sue figlie non propone Barbie ma super eroine. Che forse nel mondo dei fumetti hanno seni spropositati, ma dicono alle bambine che il mondo non ha bisogno di principi azzurri, ma di eroine. E, con buona pace di chi dà loro dei matti, vivono ancora e vivranno per sempre felici e contenti.

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