Primavera

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L'alba stamane era nascosta dalle nubi. Pesanti come una coperta troppo calda, in questa primavera ancora incerta. Acqua ovunque: i ciottoli del sagrato erano lucidi come specchi, l'asfalto delle strade chiazzato di pozze, dove il manto ha ceduto. Il fiume ha accolto acqua nell'acqua, rendendo meno visibile il fondale. I piccioni, nascosti tra i cornicioni della chiesa, aspettavano solo la fine della pioggia, per invadere, indisturbati, la piazza.

Sono stanca e spaventata. I militari presidiano, da quando è sorto il giorno, gli incroci del centro storico, con i fucili imbracciati e i volti coperti. Detesto non vederne il volto; so che sono ragazzi vestiti di verde e null'altro, ma il volto liscio della maschera li rende minacciosi e astratti. I miei figli hanno occhi, naso, bocca. Che sorridano o piangano, che sussurrino o gridino, posso leggere sul loro volto l'anima.

Le strade sono deserte e i pochi passanti sembrano fuggire, per nascondersi nelle case, portando al sicuro tesori di spesa e medicine, come se fossero i dobloni dei pirati o il bottino di un'illecita rapina. No, proprio non mi piace non riuscire a vedere i sorrisi, nascosti dietro tele e teste basse. Eppure il sole può splendere, ora che il giorno è sorto, e nei cortili scorgo bambini giocare, rumorosi come sono sempre stati. Adoro guardare i bambini, mostrano agli uomini e alle donne come si sta al mondo, calciando una palla e soffiando bolle di sapone verso l'orizzonte. Una ragazzetta si aggrappa al cancello di casa: ascolta il gracidio delle rane, che hanno fatto tana nella parte più lenta e placida del fiume. Ha negli occhi la curiosità della vita.

Sono stanca, stanca da non crederci e mi sento vecchia. Ricordo il passato, ricordo i carri armati fermati sul ponte di fianco alla chiesa, fatto crollare per non consentire il passaggio, le voci straniere gridare ordini e minacce. La polvere candida delle case crollate a far parere tutti vecchi come me, le facce magre e gli occhi foschi. Era un altro tempo, lo so. Era un tempo crudele e sadico, con cumuli di morti nascosti in periferia, lontano dagli occhi di tanti. Ma io so, io ricordo.

E dopo quel periodo, il sangue fu lavato, le pietre raccolte e portate dolorosamente a coprire le fosse in campagna, le case ricostruite. Sono stata bella.

Le donne, a quei tempi, portavano lunghe vesti fiorite e leggere, cappellini di paglia e il rossetto rosso come il coraggio che sapevano mostrare. E le prime calze di seta, leggere, impalpabili, a fasciare gambe abituate alla fatica nei campi. Sì, sono stata bella e coraggiosa. 

E piacevo! Gli uomini passeggiavano, col panama abbassato sullo sguardo sornione e guardavano, senza farne mostra. Era un tempo strano e leggero, in cui gli uomini si vergognavano di ammirare apertamente la bellezza, ma la omaggiavano galantemente, mentre le donne tiravan su le maniche per reggere forte una vita che non temevano. 

Oggi le mie ossa sono fragili. Le hanno rese tali gli anni, i terremoti e l'incuria. Non ho più vanità. Se sono bella, lo sanno solo i miei figli, che mi guardano con occhi che un giorno sanno di odio e l'altro d'amore. Nel loro sguardo, ogni tanto ringiovanisco, sentendomi fugacemente preziosa. La primavera è la mia stagione, quelle in cui il primo sole e il profumo dei fiori mi strappano di dosso gli anni. Ma non questa, questa volta no. 

Questa primavera è strana: le strade sono piene di gatti, ferini come lo sguardo scintillante delle loro pupille aveva sempre suggerito. I muri lasciano spuntare fiori selvatici; non ho mai compreso coloro che li strappano e chi li chiama erbacce, come non comprendo chi vorrebbe strappar via da una terra ormai madre quei fiori che l'uomo trapianta, lontani dalla propria patria, chiamandoli poi "straniero". I fiori sono fiori, i figli sono figli. 

Affacciati alle finestre, fermi sui balconi, uomini e donne aspettano il tramonto, quasi ogni sera. Qualcuno sorseggia caffè, altri parlano, come in un salotto a cielo aperto. Mi viene da sorridere, a quelle amicizie clandestine, condite di umorismo e cordiale sorpresa.

Quando vedo quegli occhi, quando sento il suono di quelle risate, avvolte dal profumo aromatico del caffè, quasi dimentico la mia età e la paura diventa un pensiero nascosto. Forse dovrei grattarmela per bene, questa irritante paura, come si fa con la puntura di una delle odiose zanzare cui il fiume ha fatto da culla. Grattarla fino a banalizzarla, perché io so che tutto passa, io, che ho memoria e ho visto la parte peggiore dell'uomo.


La Libraia del turno di notteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora