Il matto

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Alberto alzò gli occhi dallo schermo, sentendoli bruciare; il caffè si era raffreddato nella tazza e aveva lasciato un alone circolare sul tavolo di vetro opaco. Si lasciò cadere sfinito sulla poltrona e premette le nocche sulle palpebre; avrebbe voluto cancellare l'anonimo ufficio che aveva intorno.

Prese un paio di respiri profondi, poi mise i palmi sulle ginocchia per darsi lo slancio. L'ufficio si affacciava sul fiume: un bordo di alberi ricciuti come i suoi capelli lo contornava, in una curva sinuosa. I fari delle auto illuminavano l'asfalto bagnato dalla pioggia.

Incontrò il suo riflesso nel vetro della finestra e sussultò: per un momento, alla luce artificiale, i suoi capelli gli erano parsi rossi come fiamme.

- Sono alla frutta – pensò, afferrando la giacca per andare a casa.

Si mise al volante; la sua era un'auto dalla linea aggressiva, nera come una pantera. Quando l'aveva comprata, Anita l'aveva guardato come se l'avesse visto alto e forte il doppio. Ora era chissadove con chissachi, ma finché era durata...

Girò la chiave, schiacciando delicatamente l'acceleratore, e si girò verso lo specchietto retrovisore, per uscire dal parcheggio, quindi inchiodò: nello specchio, il suo volto era pallido, circondato da capelli fiammanti coperti da un cappello a cilindro verde bosco. Sorrideva, le labbra stirate fino a creare due fossette sulle guance e gli occhi ammiccanti e luminosi.

Il cuore prese a battere come le casse a un concerto. Scese di corsa dall'auto e sbatté lo sportello. Era così stanco da avere le allucinazioni?

- Prenderò un taxi – mormorò, aggiungendo alle visioni bizzarre la stranezza di parlare da solo, e si sentì improvvisamente spaventato, vergognoso e assurdamente rassicurato: la sua voce era sempre la stessa. Per lo meno!

Si portò all'angolo della strada, chiamò con un gesto secco il primo taxi che passò e ci si sedette, sprofondando nel sedile e chiudendo gli occhi: se la follia avesse dovuto continuare, meglio essere solo, meglio non farlo notare.

Pagò una corsa inutilmente cara, poi corse fino a casa, con passo frettoloso e vagamente ridicolo.

Eccolo: il suo rifugio. 

Fu accolto da un rassicurante caos, comodo come un vecchio pigiama. Il letto mezzo sfatto lo salutò mostrando pieghe e grovigli di cotone, il comodino ingombro di libri e fazzoletti sembrò ammiccare. Si fermò solo per un momento, per scalciare via le scarpe, gettò giacca e cravatta a far compagnia alle coperte e avanzò lentamente verso lo specchio.

Quei lunghi minuti ad ascoltare il rumore monotono del motore avevano mutato il suo stato d'animo: la paura aveva lasciato il posto a un'aspettativa ansiosa, folle.

Non guardò subito la sua figura allo specchio, cercando di concentrare la sua attenzione sulla stanza dietro di sé. L'ambiente sembrava essere lo stesso. Una stanza caotica, dai mobili di legno chiari. Il letto disfatto, con le coperte aggrovigliate. Poi si accorse di una differenza, spalancando leggermente gli occhi: ai piedi del letto, invece delle sue pantofole di cuoio bruno, c'erano due pelose, gonfie, eccentriche pantofole a forma di coniglio, con lunghe orecchie candide dal cuore roseo.

Immaginò i suoi piedi nudi in quel confortevole calore e pensò che sarebbe stato fantastico fare a cambio con il suo doppio nello specchio. Forse fu questo pensiero a dargli il coraggio di fissare direttamente la sua immagine.

Restò affascinato a guardare il suo riflesso, noto e ignoto assieme: i suoi lineamenti erano impressi sul volto di una figura vibrante di colore. Si vide fare un profondo inchino, togliendo il cappello con uno svolazzo complicato. Osservò il suo sorriso, per un momento perplesso, poi si rese conto di cosa gli pareva così strano: era un sorriso gratuito, non serviva a ingraziarsi nessuno, non aveva secondi fini o ricatti nascosti. Si chiese da quanto tempo non vedeva un simile sorriso sul volto di un adulto e si accorse di non saper rispondere. La figura nello specchio gli fece segno di aspettare, con un occhiolino, e si mise a frugare nelle tasche, poi Alberto lo vide dare una muta esclamazione soddisfatta, estraendo una carta. 

La rimirò con affetto, poi la voltò verso di lui. Rappresentava un uomo danzante, dall'abbigliamento eccentrico e dal volto allegro, seguito da un cucciolo altrettanto vivace. La carta sembrò crescere, nelle sue mani, finché Alberto non ne scorse il volto: il suo.

Si piaceva con quei colori, gli parve di uscire dal grigio della sua vita. Alberto iniziò a ridere, così tanto che dovette sedersi sul pavimento: allucinazione, follia, visione, magia. Qualunque cosa fosse, il matto gli aveva mostrato la strada.

La Libraia del turno di notteDove le storie prendono vita. Scoprilo ora