49. Un altro tipo di aiuto

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"She used to be mine", Sara Bareilles

Tyler's pov

Non mi era mai capitato prima di essere costantemente e perennemente terrorizzato dall'idea di stare lontano da una persona per così tanto tempo.

Facevo il possibile per non lasciarla sola. Ma c'erano volte in cui non potevo farlo. E, naturalmente, c'erano volte in cui lei non me lo permetteva.

Avevo imparato fin troppo bene il suo codice. I momenti in cui diceva di stare bene erano quelli in cui stava peggio.

Quando sorrideva aveva solamente voglia di piangere.

E quando rimaneva in silenzio, avrebbe soltanto voluto smettere di pensare e sfogarsi con qualcuno.

Io c'ero, per lei. Sempre.

Ma era lei che non c'era più.

E questa cosa mi spaventava così tanto che la notte non riuscivo a chiudere occhio. Vivevo con la paura all'idea di cosa stesse facendo, cosa stesse pensando, quanto stesse soffrendo.

Era una sensazione orribile. E lo era ancora di più il fatto che non potevo fare nulla per impedirlo.

Ero arrivato ad una conclusione: aveva bisogno di aiuto.

Ma un aiuto serio. Io non potevo essere la sua cura. L'amore non funziona così.

Facevo il possibile, certo. Le stavo accanto quanto potevo. Ero spaventato a lasciarla sola quando andavo a lezione. Sospettavo persino che mi mentisse, a volte, e che non tornasse a casa dopo scuola.

Diceva che non c'era bisogno di preoccuparsi. Non faceva altro che chiedere scusa. Per qualsiasi cosa, anche quando non ce n'era bisogno.

Stavo lentamente impazzendo. Questa cosa mi mandava fuori di testa.

E la cosa peggiore era che dovevo fare finta di nulla quando era accanto a me. Non volevo darle altri motivi per cui stare male.

Dovevo nasconderle quanto mi sconcertasse vederla così a pezzi.

Quindi sorridevo, sorridevo, sorridevo. Era l'unico modo per farla stare tranquilla, almeno per un po'.

Ed era continuamente instabile emotivamente. In un momento sembrava tranquilla, ed il secondo dopo sembrava sul punto si scoppiare a piangere.

Sarei voluto a scoppiare a piangere io, al posto suo, per quanto mi sentivo male.

Avrei voluto sentirlo io, il dolore che provava lei.

Avrei voluto piangerle io, le lacrime che versava la notte nella sua camera, quando era sicura che nessuno l'avrebbe sentita.

Non mi importava. Se quello era l'unico modo per toglierle quel peso dalle spalle, giuro che l'avrei fatto. Qualunque fossero state le conseguenze. Anche a costo di morire soffocato dalla paura. Alla fine, lo facevo già, tutti i giorni.

Era devastante. Tutta quella situazione era devastante.

Ed i sensi di colpa erano devastanti. Non riuscivo a smettere di pensare che fosse colpa mia. Che ero io ad averla ridotta così.

Non l'avrebbe mai ammesso, ma io lo sapevo bene. Come avevo fatto a permettere una cosa del genere?

Quella notte aveva cambiato tutto. Era stata la goccia che aveva fatto traboccare il vaso. Sapevo che era già fin troppo instabile. Si reggeva ancora in piedi per miracolo.

Avevo rovinato tutto. E sospettavo che, alla fine, mi sentissi così anche per quello. Perché sapevo che era stata tutta colpa mia.

"Mi dirai dove stiamo andando almeno prima di arrivare?", mi chiese Ele, allacciandosi la cintura di sicurezza.

Non mi toccare 2Dove le storie prendono vita. Scoprilo ora