52. La fine

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Tyler's pov

Ero davvero arrivato alla fine della corsa, quella volta, mentre entravo in macchina e mi preparavo per tre ore di viaggio.

Il fatto che avessi lasciato che Ele mi condizionasse a tal punto a farmi rinunciare di obbligarla a farsi aiutare in un modo, non implicava per forza che avessi dovuto rinunciare a farlo in un altro.

Ovviamente sapevo che non era il modo migliore. Né tantomeno quello giusto. Ma sentivo che fosse già qualcosa. Non mi sarei mai arreso davanti ad una cosa del genere, soprattutto vedendo come ogni giorno le cose peggioravano.

Perché sì, peggioravano. Lei peggiorava. I primi giorni dopo esser stato a casa sua sembrava più serena, ma era uno stato emotivo precario ed instabile. Capii solo dopo che era soltanto perché aveva capito che non avrei più tentato di convincerla fare qualcosa che, era chiaro a tutti, non avrebbe mai voluto fare.

Non sapeva che, invece, ci stavo ancora provando. In un modo diverso. Era l'unica cosa che mi era rimasta da fare. Se non potevo risolvere il problema dall'esterno, potevo almeno sperare di poterlo risolvere dall'interno. E non avrei comunque mai potuto dirglielo.

Se lo avesse scoperto sarebbe stata la fine della sua stabilità. La fine di tutto quello che avevamo costruito, e non l'avrebbe sopportato. Né io, né lei.

Dopo aver parlato con quel ragazzo avevo avuto voglia di scaraventare tutto il locale a terra. Che mondo di merda in cui viviamo.

Ma era già qualcosa quello che mi aveva detto. Ero sicuro che, dopo quello, non ci sarebbe stato davvero più niente da fare. Niente.

Avevo deciso di partire il giorno seguente. Tre ore di viaggio non erano poi così tante rispetto a venti. Ed era un prezzo che avrei pagato anche subito pur di anche solo sperare di aiutare Ele.

Non le avevo neanche accennato del mio viaggio. Non c'era bisogno che lo sapesse. Sapevo che non avrebbe avuto la forza di fare domande, quindi non era quello che mi preoccupava. L'unica cosa che mi preoccupava davvero sarebbe stata la prospettiva della fine di tutto. Avevo una paura fottuta a sapere come sarebbe andato a finire tutto quel casino.

Mi tormentavo la notte chiedendomi se Ele sarebbe mai stata meglio. Anche senza l'aiuto di cui aveva bisogno, ma che affermava di non volere. Sapevo bene che non si trattasse più solamente di semplici sbalzi d'umore.

Maledizione. Ammetterlo era una pugnalata al cuore ogni singolo giorno.

Ma visto che si rifiutava di farlo lei, dovevo farlo io. Non avevo mai avuto a che fare prima con problemi di questo tipo. E la cosa più brutta era che si trattava della persona che amavo. Non avevo davvero la minima idea di come comportarmi con lei.

Ogni volta che dovevo dire qualcosa ci pensavo due volte. Avevo paura di ogni sua reazione. E quando esplodeva in un momento e si scusava in quello successivo dovevo fare finta che non mi importasse. Ma cavolo se mi importava.

Non seppi più che fare, ad un certo punto. Facevo il possibile per starle vicino anche oltre la scuola e non lasciarla sola, ma inventava sempre qualche scusa e si rifugiava in casa. E non avevo la minima idea di cosa facesse. Quando non c'era sembrava difficile persino respirare.

E poi era impegnata con la decisione del college. Sospettavo che ci stesse ripensando riguardo New York. Ero felice per lei, ma allo stesso tempo mi spaventava il futuro. Il suo, il mio, ed il nostro insieme. Ma mi rifiutavo di pensarci in quei momenti. I miei problemi erano decisamente altri.

Mentre arrivavo ad Aspen cercai di scacciare dalla testa qualsiasi altro pensiero. Dovevo davvero calmarmi. Ero seriamente preoccupato di cosa avrei potuto fare una volta arrivato lì.

"Signor Evans? Tyler Evans?", domandò una donna alla reception con lunghi capelli biondi. Mi rivolse un sorriso malizioso e mi fece l'occhiolino.

Ignorai le sue patetiche provocazioni e mi avvicinai al bancone dietro cui si trovava, titubante. "Si. Si, sono io", affermai. Non riuscii a nascondere il nervosismo nella mia voce, ma lei non sembrò notarlo.

"Bene. Può entrare", dichiarò con tono freddo e scostante. Delusa dal modo in cui la stavo ignorando, mi rivolse una smorfia ed un'occhiata offesa e si rifugiò di nuovo dietro il suo computer.

Mi girai e fissai la porta davanti a me. Potevo farcela. Non era niente, in fondo.

Feci qualche passo avanti verso la maniglia. Distesi le dita verso il basso e le lasciai calmarsi. Era difficile cercare di non pensare di prendere a pugni l'uomo che aveva rovinato la vita della persona che amavo quando ce l'avevo davanti.

Presi diversi respiri profondi. Sentivo gli occhi della segretaria dietro di me osservarmi, cercando di capire che cosa stessi aspettando ad aprire quella maledetta porta. Se solo avesse saputo in che situazione mi trovavo...

Finalmente mi decisi e posai la mano sulla maniglia. Spinsi verso il basso e sentii scattare la serratura.

Spalancai la porta davanti a me e me la richiusi alle spalle senza esitare. Non dissi una parola mentre l'uomo girato di spalle si voltava.

Ma era l'ultimo uomo sulla terra che mi sarei aspettata di vedere lì.

"Tyler"

"Papà"

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