the day the music died.

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Quanti ricordi possono contenere quattro mura?
Finn non ne era certissimo, ma dovevano essere decine e decine, almeno uno per ogni pomeriggio passato lì sotto, a seguire con lo sguardo i percorsi ormai noti delle crepe sul soffitto  o a ridere, rovesciando la birra sul tappeto, per l'imitazione mal riuscita di Hugh Grant fatta da Gaten.
Jack viveva da solo, in un piccolo bilocale a due passi da Holland Park: piano terra, pareti ingiallite ormai scomparse sotto strati e strati sbiaditi di poster e un divano-letto perennemente disfatto al centro del salotto.
Ogni angolo di quelle poche stanze sembrava eretto appositamente per essere un inno di tributo agli anni 90, in pieno "stile Anderson", come il ragazzo dai capelli biondi si ostinava fieramente a ripetere.
Chiunque aveva bisogno del proprio rifugio personale, lì, tra le strette strade di West London: e in quell'appartamento, che affacciava su un vicolo poco trafficato, da cui risaliva l'odore speziato di curry e cannella o quello pungente della pioggia quando scendeva lenta dalle grondaie, un gruppo di poco più che ventenni aveva trovato la chiave per isolarsi dalla realtà, anche solo per qualche ora.
Come in quel venerdì sera uggioso, con le finestre appannate e la luce calda e fioca della lampada ad illuminare la stanza e i volti sorridenti che la stavano animando.
"Dio, quanto mi manca il liceo! Essere ubriachi a giorni alterni con i tempi di recupero dimezzati.  Bei momenti!"
"Hai ragione, Gate, ora è cambiato tutto: adesso sei ubriaco tutti i giorni!"
"Fanculo, McLaughlin."
Finn sorrise ascoltando quel battibecco tra i suoi due migliori amici, pur senza unirsi completamente alle risate degli altri ragazzi, che se ne stavano sparpagliati tra le poltrone e il grande tappeto scuro sul soppalco, nel cuore di quel bilocale al piano terra, dove c'era sempre un gran calore, nonostante il freddo che potesse far fuori.
Lui se ne stava seduto al grande sgabello del pianoforte, che era stato per settimane l'unico elemento d'arredo in quella casa, assieme al basso, considerato da Jack più come un compagno di stanza che non un oggetto di musica.
Passò distrattamente le dita sui tasti bianchi e neri, tirando fuori un accorso così delicato da risuonare appena nella stanza, subito inghiottito dalle chiacchiere e dal cartongesso.
Si sentiva un po' come quei tasti impolverati, Finn, in quel piovoso venerdì sera: capace forse di poter creare note dolcissime, se le sue corde venivano sfiorate nel modo giusto, ma rimasto inutilizzato per così tanto tempo da non essere più accordato.
Ogni accenno di melodia si sarebbe perso, allo stesso modo, assorbito dai muri che lui stesso aveva eretto attorno a sé e a quell'enorme pezzo del suo cuore votato al pentagramma.
C'era stato un tempo, neppure troppi anni prima, in cui, se gli avessero detto che il suo rapporto con la musica si sarebbe ridotto unicamente al carezzare le copertine ruvide dei vinili tra gli scaffali del suo negozio, si sarebbe certamente limitato a ridere di gusto, per imbracciare di nuovo la chitarra, ai tempi prolungamento naturale delle sue braccia.
Finn aveva imparato a strimpellare le sei corde da autodidatta, quando era poco più che un bambino, ed era la cosa che lo aveva reso più fiero e soddisfatto, da che ne avesse memoria.
-"Hai davvero stoffa, ragazzo mio!"- 
Eric, suo padre, gli aveva ripetuto quelle parole in così tante occasioni da aver perso il conto, ogni volta che lo aveva visto chino, sulla sponda del letto o contro la finestra, a suonare familiari melodie, che attraverso il tocco gentile delle sue dita, si diffondevano per l'intera stanza.
Erano note spregiudicate, quelle: ambiziose, come il vecchio sé stesso.
Quelle non sarebbe stato certo il calcestruzzo o il suono argentino di una risata a spegnerle.
Erano arrivati poi gli anni migliori, ruggenti; quelli in cui aveva creduto davvero, con tutte le sue forze e tutto sé stesso, che sarebbe riuscito a coronare il suo sogno musicale con successo.
Finn lo aveva visto con chiarezza, il suo futuro.
Il punto di partenza sarebbe stata la condivisione: magari formare una band di quartiere, provare per ore nel garage dei suoi, mettere da parte dei soldi per registrare in studio almeno un singolo, che avrebbe potuto tirar fuori dalla lista infinita di testi che custodiva gelosamente nel suo taccuino.
Dio, quanto gli mancava comporre.
Probabilmente "scrivere"  la musica era la cosa che adesso, confinato com'era al di là di un bancone, circondato da dischi senza che potesse davvero "viverli", gli mancava di più in assoluto.
Buttare giù parole accompagnate da note, scarabocchiate negli angoli di quaderni, di post-it occasionalmente strappati o persino sulle copertine strappate di vecchissimi CD, per anni era stata la cosa che meglio gli riusciva.
Comporre era stato, per Finn, naturale tanto quanto lo era respirare.
Era stato durante una serata piovosa come quella che aveva fatto ascoltare per la prima volta un suo pezzo a qualcuno: suo fratello Nick, seduto a gambe incrociate accanto a lui, lo aveva ascoltato con un gran sorriso sulle labbra e con lo sguardo saturo di orgoglio perché, cavolo, il suo fratellino di stoffa ce ne aveva eccome.
E Finn ci credeva: diamine, ci aveva creduto per davvero!
Per un lunghissimo istante, lui si era convinto sul serio di poter avere stoffa.
Nei suoi sogni ad occhi aperti, coltivati sin da quando era un bimbetto con troppi riccioli a coprirgli la fronte che guardava con ammirazione infinita le esibizioni di front-man del calibro di Bono o Steven Tyler sullo schermo TV in bassa definizione della sua vecchia casa, quell'universo fatto di luci e armonie non poteva non essere perfetto tanto quanto sembrava.
Ma non tutte le stelle di quell'universo brillavano di luce propria, così come Finn, cullato dalle note rassicuranti dei suoi idoli e della sua chitarra, si era illuso che potesse essere, e quella strada, che gli era sembrata spianata, aperta e pronta ad accoglierlo, gli aveva riservato più di qualche curva inaspettata.
Quando Finn si era trovato alla fine a doversi scontrare frontalmente con la dura realtà, il colpo era stato troppo forte per poter evitare la caduta rovinosa che ne era seguita.
L'inizio della fine era stato segnato da un paio di grandi occhi verdi, che avevano fatto la loro comparsa in una giornata d'autunno, quando i ciliegi avevano ormai perso tutti i loro fiori e nell'intero quartiere potevano vedersi zucche intagliate d'ogni tipo a far da guardia alle porte.
Finn si era allora rintanato, come faceva sempre, nella sala prove a due isolati da casa sua: ogni pomeriggio, dopo la scuola, trascorreva, tra quelle mura rosse e insonorizzate, almeno un paio d'ore, impiegate per esercitarsi con le chitarre elettriche messe a disposizione dal proprietario o per seguire la lezione di pianoforte del giovedì.
Il suo mondo, ai tempi, sarebbe potuto tranquillamente esser rinchiuso tutto lì.
Fu proprio mentre se ne stava seduto a gambe incrociate sul pavimento della sala, con la testa piegata in avanti verso uno spartito ancora semi-vuoto e le mani intente a sorreggere una Gibson nera e lucida che quelle iridi chiare si erano posate per la prima volta su di lui.
Dovevano essere passati dieci minuti buoni prima che Finn si fosse accorto della presenza di un'altra persona a due passi da lui.
-"Però ... ce ne hai messo di tempo."-
-"Cos- Scusa, scusami tanto, io ... Beh, diciamo che ero preso!"-
-"Questo lo vedo da me ... E che cos'è che ruba tanto la tua attenzione? Bowie? I Police?"-
Finn ricordava esattamente come si fosse affrettato a prendere tra le mani lo spartito con le poche note disordinate che ci aveva scritto su e ad accartocciarselo in tasca, alzandosi piano dal freddo pavimento a scacchi e limitandosi a fissarne gli occhi di rimando.
Quegli occhi, l'inizio della fine.
-"Non sei uno di troppe parole tu, eh?"-
-"Direi di no, non è proprio il mio forte!"-
-"Neppure se si tratta di dirmi il tuo nome?"-
C'era stato un altro sguardo, un altro gradino verso l'inevitabile.
-"Beh, quello sono ancora in grado di farlo. Sono Finn, Finn Wolfhard."-
Un passo in avanti, una mano tesa.
-"Iris."-
La fine di tutto furono un paio di occhi verdi.
Una stretta di mano, infine.
Non c'era ancora alcun fiore ad adornare i viali alberati dei ciliegi, nel giorno non lontano in cui quella fiamma ardente che aveva animato i suoi sogni da che ne avesse memoria sarebbe stata risucchiata dal vortice smeraldino di due occhi troppo vivaci.
Non era lontano il giorno in cui, da quegli stessi sogni, la musica sarebbe scomparsa.
"E poi Cal le è corso dietro per chiederle di andare al ballo con lui, ma alla fine le è letteralmente caduto addosso perché si vanta di essere un gran ballerino, ma a quanto pare si era scordato come si fa a camminare!"
"Piantala, idiota!"
Le voci allegre di Gaten e Caleb, a pochi passi da lui, gli fecero sbattere gli occhi ed uscire dai cunicoli di pensieri in cui era andato a perdersi, a partire dai tasti polverosi del piano di fronte a sé.
La mano gli scivolò rapida dalla tastiera, nello scatto che accompagnò il suo ritorno alla realtà, mentre si voltava nuovamente verso il gruppo di disadattati che erano un po' la sua seconda famiglia.
Si sentì smarrito, per qualche secondo: quel salto repentino all'indietro in un tunnel di ricordi non esattamente piacevoli ebbe l'effetto di un colpo ben assestato in pieno petto.
"Non fare così, alla fine mi sembra che ti sia andata bene lo stesso, non ti pare?"
La voce, questa volta, era stata quella di Sadie, che era andata ad accomodarsi sulle ginocchia del suo ormai storico fidanzato, cingendogli il collo con le braccia.
L'ennesima ondata di risate invase la stanza, evitando, di nuovo, di raggiungere il volto e l'animo di Finn, ancora troppo poco ancorato alla realtà del piccolo bilocale di West London.
La cosa non passò inosservate agli occhi di Caleb, che, aggrottando appena la fronte, si rivolse a lui:
"Wolfhard, sei dei nostri? Oggi sei di poche parole persino per i tuoi standard!"
Finn sollevò lo sguardo, scuotendo repentinamente la testa e tirando un sorriso sulle labbra dischiuse.
"Certo, scusa amico. Ero solo un po' distratto." rispose lui, alzandosi ed avvicinandosi al tappeto per sedersi accanto a Malcolm, impegnato in uno scontro decisivo a colpi di joystick con Jack.
"Ohohoh, Finnie, lo sappiamo cos'è che ti distrae." lo schernì Gaten, riempendosi la bocca di patatine e guardandolo con fare ammiccante.
Finn alzò gli occhi al cielo, mentre si metteva più comodo.
"Non ricominciamo adesso."
"Ricominciare? Ti lamenti?! A me sembra che non ne abbiamo parlato neanche lontanamente abbastanza, amico!"
"Siamo stati fin troppo calmi e rilassati a riguardo per i nostri standard, Wolfhard, questo dovrai ammetterlo anche tu." - intervenne Ayla, sorridendogli divertita e dando man forte al suo coinquilino: decisione molto pericolosa.
"Semplicemente non c'è nulla da dire, ragazzi, siete tutti ossessionati!"
Caleb gli lanciò uno sguardo indignato, lanciandogli addosso il telecomando, pur senza colpirlo
"Ossessionati?! Finn, ma sei serio?!" 
"Cal, sto solo dicendo che -"
"Stai solo dicendo che dovremmo starcene tutti qui a far finta di nulla. Pretendi che tutti noi poveri mortali in questa stanza dovremmo dimenticarci all'improvviso che Millie Bobby Brown è stata alla mia festa di compleanno comparendo e sparendo nel nulla nel giro di una sera. Parli sul serio, Finn?"
Finn indietreggiò appena, strisciando indietro con le gambe: Sadie sapeva fare davvero paura, quando voleva.
"Non ho detto questo, ma -"
"Hey, hey, state dimenticando il dettaglio fondamentale: i due piccioncini hanno passato la notte a casa nostra e, cazzo, voi non c'eravate la mattina dopo per vedere quell'enorme succhiott-"
"Gaten!" 
Finn adesso aveva urlato.
"Fratello, seriamente, non puoi darcela a bere su questo. E poi se fosse capitato a chiunque altro di noi, starebbe a sbandierarlo in continuazione. Hai guadagnato una quantità di punti infinita!" rise Jack, divertito, pur senza staccare gli occhi dallo schermo di fronte a sé: di fronte alle sfide tra lui e Malcolm non c'era star del cinema che tenesse.
"Non c'è davvero nulla da sbandierare..." -sussurrò Finn fra i denti, abbassando lo sguardo e stringendo l'orlo consumato del suo maglione tra le dita.
E anche se si fosse messo ad urlare ai quattro venti ciò che in quella notte fredda aveva sentito e provato, quale sarebbe stato il senso, alla fine?
Era passata quasi una settimana, da quella notte surreale.
Una settimana in cui il ritorno progressivo alla realtà si era dimostrato più difficile del previsto.
E in fondo Finn non se ne era troppo stupito: non esisteva alcun manuale di istruzioni che spiegava come tornare ad essere un semplice venditore di Notting Hill nella cui vita non accadeva mai nulla di inusuale, dopo quello che aveva vissuto tra i ciliegi in fiore e le lenzuola disfatte del suo letto.
Ancora adesso, se sbatteva gli occhi più del dovuto, faticava a credere di aver vissuto realmente quelle ore a stringere e bearsi di un volto che aveva creduto che avrebbe ammirato sempre e solo al di là di uno schermo o di un proiettore.
Dal giorno in cui la musica era scomparsa, non aveva mai più sentito alcuna scintilla accendere il suo animo.
Ma dal giorno in cui aveva ricominciato a guardare i ciliegi in fiore, passeggiando al fianco di quella che, per qualche ora, era davvero stata solo "Millie", si era ricordato cosa significasse ardere dall'interno.
Anche solo per un istante.
Portò la mano alla tasca dei jeans, stringendo tra le dita il post-it stropicciato su cui spiccavano in nero le poche cifre di un numero che aveva imparato a memoria, ma che non aveva ancora mai avuto il coraggio di chiamare.
Cosa le avrebbe mai potuto dire?
Cosa avrebbe provato, lui, a risvegliarsi da quell'illusione sospesa?
Forse era meglio così: restare custode geloso di quella parentesi rosa, che, inspiegabilmente, il destino aveva riservato alla sua vita senza più musica o colore.
Era meglio restare Finn, del "Club del vinile", con i suoi maglioni infeltriti e le sue giornate monocromatiche, ma consapevole di aver vissuto un sogno ad occhi aperti dal quale una parte di lui mai si sarebbe risvegliata.
"Non ci posso credere, di nuovo?!"
"Paga, amico, paga!"
Gli occhi scuri e malinconici di Finn intercettarono prontamente la mano alzata in segno di vittoria di Malcolm, che ridacchiava soddisfatto senza distogliere lo sguardo dal volto scocciato del padrone di casa.
"Voglio la rivincita Craig, tu mi stai imbrogliando." disse Jack, incrociando le braccia e lanciando il joystick per terra.
Finn rise per davvero, stavolta: certe cose non sarebbero mai cambiate. E forse un po' di colore alle sue giornate riuscivano a regalarlo.
Erano lì da ore, ormai, a ricordare i tempi passati e a fare i ragazzini ancora per un po', tra cuscini lanciati in faccia e partite ai videogiochi lasciate a metà per smezzarsi l'ennesima birra.
E altre ore sarebbero passate, prima che si decidessero a ritirarsi e a ritornare ciascuno a casa propria.
Il tempo sembrava sempre volare, quando si ritrovavano tutti insieme in quel piccolo appartamento a due passi da Holland Park.

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⏰ Ultimo aggiornamento: Dec 13, 2019 ⏰

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