The letter

165 13 2
                                    

P.O.V. Elizabeth

Osservai con aria risoluta la sottile patina di ghiaccio che intrappolava l'ascia con cui ero solita tagliare la legna. Afferrai saldamente il manico e imprimendogli tutta la forza che avevo nelle braccia tirai; udii un leggero scricchiolio, ma l'ascia non si mosse.
Frustrata, battei i piedi per terra e contemporaneamente mi portai le mani intirizzite alle labbra per riscaldarle: il Sacro Natale era passato da pochi giorni e il gelo si insinuava dappertutto, nonostante i numerosi strati di vestiti che indossavo.
Mio padre era a letto malato, mia madre si prodigava per assisterlo e così toccava a me l'ingrato compito di spaccare i ciocchi di legname per riattizzare il fuoco. Un compito che dieci anni prima mio fratello Mark avrebbe compiuto senza sforzi.

Chiusi gli occhi, mentre il familiare senso di nausea e colpa mi invadeva il petto, minacciando di soffocarmi: stavamo per entrare nel primo anno del nuovo secolo e di mio fratello nessuna traccia. In quei dieci, dolorosissimi anni mio padre non si era mai dato per vinto: dopo che le acque a Rosenville si erano calmate aveva inviato messaggi a tutti i suoi ex-compagni di lavoro della ferrovia e si era tenuto informato su tutti i ricercati. Mark sembrava semplicemente scomparso nel nulla.
Se da un lato la cosa ci rallegrava – se la sua famiglia non riusciva a trovarlo, allora di certo non ci sarebbero riusciti neanche i federali – dall'altro ci gettava in una cupa malinconia: poteva essere morto, oppure aver cambiato continente e noi non avremmo mai saputo niente. Probabilmente riteneva di tenerci al sicuro senza scrivere neanche una riga, ma io lo odiavo per questo.

"Dove sei, Mark?" mi chiesi per l'ennesima volta, riuscendo finalmente a disincagliare l'ascia dal ghiaccio con un movimento brusco che mi fece barcollare all'indietro.
"Mi sento così inutile senza di te..."
Mark era stato sempre l'esempio da seguire, il mio rifugio e il mio migliore amico: senza la sua presenza rassicurante sembravo ancora più goffa e taciturna di quanto non ero in realtà.
Avevo ancora impressa sulla pelle la sensazione di quelle sudicie mani che mi palpavano senza ritegno e gli incubi erano durati per mesi, prima che recuperassi una parvenza di sanità mentale. Abbastanza affinché gli abitanti di Rosenville iniziassero a considerarmi pazza, diceria alimentata dal fatto che non avevo più messo piede fuori dai confini della fattoria dal giorno in cui Mark aveva ucciso il pistolero.
Le minacce di mio padre e le preghiere di mia madre erano state inutili: quel piccolo terreno sicuro e tranquillo era diventato il mio mondo, l'unico in cui potessi vivere senza terrore.
A sedici anni avevo una fervida fantasia, molto entusiasmo e il desiderio inconfessabile di girare il mondo; a ventisei, ogni giorno ripetevo meccanicamente gli stessi gesti nella speranza di annullare i pensieri crudeli che si agitavano nella mia mente. Scossi il capo, ridacchiando tra me e me:
«Forse sei davvero pazza, Lizzie. Guardati, parli anche da sola!» mormorai, posizionando sul ceppo un pezzo di legna da tagliare.

Un discreto colpo di tosse mi distolse dal mio lavoro. Mi voltai e vidi che il postino di Rosenville stazionava imbarazzato oltre la staccionata di legno, a poche iarde da me: mi fissava quasi intimorito, spostando il peso del corpo da un piede all'altro.
"Da quanto mi stava osservando?" pensai, avvicinandomi titubante. "Pensa che bel pettegolezzo per le signore di Rosenville, Lizzie!"

Ero consapevole che il mio aspetto rispecchiava l'incuria e la solitudine che caratterizzavano la mia vita: nonostante mio padre si fosse ostinato, per anni, a comprarmi vestiti belli ed eleganti nel tentativo di riscuotermi dalla mia apatia, indossavo sempre due o tre abiti sgualciti e rammendati, ormai scoloriti per i numerosi lavaggi. La mattina legavo i capelli neri in una crocchia alla base della nuca, ma dopo poche ore erano già in disordine.
Mi diressi verso l'uomo con passo marziale e un cipiglio severo, ma sentivo il cuore battere ad una velocità inconsueta: quasi mai giungevano lettere per la famiglia Walker. Se si trattava di brevi messaggi da parte degli amici di mio padre era Abraham a consegnarceli; speravo quindi con tutto il mio cuore che fosse una missiva da parte di Mark.
Il postino osservò il mio incedere come se si aspettasse un assalto di qualche genere e senza neanche salutare mi porse una busta stropicciata e chiusa male. Sgranai gli occhi, battendo a terra con uno stivale mentre la prendevo con dita tremanti.
"Può davvero essere da parte sua! Oh Signore, non tradire la mia fiducia così!"

The cityDove le storie prendono vita. Scoprilo ora