The orphan

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Rosenville, Wyoming, 1918

P.O.V. Elizabeth

Il cielo minaccia pioggia e io sono di nuovo in cortile a spaccare la legna, mentre il vento fa turbinare le ciocche di capelli sfuggite alla mia crocchia.
Barbara si affaccia sul portico tenendo per mano la maggiore delle sue figlie, Roxanne:
«Rientra, Lizzie, o ti bagnerai!»

Io annuisco, raccolgo i ciocchi che ho già tagliato e li riporto in casa, mentre iniziano a cadere le prime gocce. In breve tempo si scatena un vero e proprio temporale e i miei tre nipoti si contendono la vista dalla finestra:
«Ragazzi, non aprite la finestra, mi raccomando!» esclama Barbara con preoccupazione, mentre mi aiuta ad apparecchiare la tavola.

«Lasciali stare, dai! La brulla campagna del Wyoming sferzata dal vento è un paesaggio totalmente diverso da San Francisco... È normale che li affascini! Anche a me piaceva guardare fuori dalla finestra durante i temporali, da piccola!»

Mi fermo un istante: è un'esitazione quasi impercettibile, ma mia cognata la nota e mi guarda con affetto.
E io mi vergogno, tantissimo.
Perché ogni volta che guardo i miei nipoti, o il suo fisico leggermente appesantito dalle gravidanze, ogni volta che incontro un bambino o parlo della mia infanzia... Ecco, io mi chiedo perché proprio io non dovessi avere figli! E provo una delusione cocente ed un'invidia profonda per Barbara e Mark, sebbene adori Roxanne, Thomas e la piccola Sarah.

Quando Mark e Connor uscirono di prigione la vita mi sembrava una favola in cui tutto si sarebbe risolto per il meglio: dopo tanti dolori e affanni credevo che una buona stella avesse ripreso a splendere su di me.
Mark si stabilì a San Francisco e alla morte di Calloway, sopraggiunta qualche anno dopo il matrimonio, prese definitivamente il comando della fabbrica, facendola prosperare, tanto che adesso, in tempo di guerra, Barbara non deve neanche supervisionarne la produzione.

Io e Connor, invece, non avevamo le idee chiare sul nostro futuro: sapevamo solo che eravamo innamorati e che saremmo stati felici dovunque, insieme. Così, un po' perché i miei genitori erano anziani e un po' perché i modi spicci e diretti della gente di qui piacquero subito a mio marito, finimmo per installarci nella fattoria di famiglia.
Mio padre è morto più di dieci anni fa, stroncato da un infarto improvviso che ci lasciò tutti sconvolti: fu allora che iniziai a pensare sul serio a costruirmi una famiglia tutta mia, forse perché il vuoto lasciato da Russell Walker nel cuore di mia madre veniva in parte colmato da me che le stavo accanto.
Con Connor non ne avevo mai parlato, ma fu subito entusiasta dell'idea: dopotutto, i figli erano una conseguenza naturale del matrimonio, o almeno così pensavamo.
Per mesi aspettammo, facendo progetti e supposizioni con una speranza che lentamente, mentre i mesi diventavano anni, si trasformò in amarezza.
Abbiamo consultato diversi dottori ma nessuno è stato in grado di dirmi perché non riesco ad avere figli e quest'incertezza, il dubbio di non essere all'altezza, di avere qualcosa di sbagliato, è un tarlo che mi consuma: anche se Connor non ha mai fatto o detto nulla per farmi sentire in colpa, so che avrebbe voluto essere padre. Ma ormai non ha senso pensare a queste cose, perché sia io che Connor siamo invecchiati parecchio in questi diciotto anni e come se non bastasse si doveva aggiungere anche la guerra!

Personalmente, non avevo mai riflettuto su un possibile intervento del nostro Paese negli scontri in Europa e per i primi anni il conflitto era rimasto relegato al giornale che Connor leggeva mentre beveva il caffè. Era qualcosa di lontano, quasi immaginario. Poi Tony, con cui mi ero tenuta in contatto negli anni, mi scrisse che sarebbe partito come volontario: l'Italia era entrata in guerra e lui sentiva il dovere di aiutare quella che nonostante la distanza sentiva come la sua vera patria.
La notizia mi turbò, ma quasi subito la vita alla fattoria mi impose di tornare alle mie abitudini: badare all'orto, ai campi e al bestiame aiutata da Connor, accudire mia madre, che dopo la morte del marito deperiva a vista d'occhio, tenere in ordine la casa... Sembra una beffa, se ci penso ora: fatta eccezione di mia madre, tutto il resto non ha più importanza. Mentre il mio amico andava in guerra, io pensavo ad una casa che ora è il regno del disordine, visto che Barbara, un po' per aiutarmi e un po' per avere accanto una presenza amica, si è trasferita qui con i bambini per un tempo indeterminato. Il suo denaro è fondamentale in questi tempi duri, perché senza l'aiuto degli uomini mandare avanti la fattoria è sempre più difficile.

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