Capitolo 6

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"Si è fatto tardi, temo di dover tornare a casa" disse Renée sistemandosi una ciocca dei suoi capelli castani dietro l'orecchio. Dopo quel momento di preoccupazione erano ritornati ad accomodarsi sul sofà. Renée aveva le gambe incrociate, come se facesse per tornare bimba, e teneva il viso tra le mani scrutando Arthur parlare. Lui appoggiava un braccio sul bordo del divano color caffè.

Non appena Arthur udì quelle parole ritornò velocemente alla realtà e smise di fantasticare sulla donna che aveva davanti. S'alzò in piedi, contemporaneamente a lei, e nel farlo, fortuitamente, vide di sottecchi la pistola sul piccolo tavolo posizionato dinanzi a lui.
"Certo, potrei...posso accompagnarti?" domandò nervoso. Renée annuì, chiaramente serena che glielo avesse chiesto.

Arthur, mentre lei si dirigeva verso l'uscio, afferrò celermente la sua 38 e la mise altrettanto rapidamente nella sua blanda giacca. Non sapeva perchè, ma aveva bisogno di avvertire sicurezza e sentiva che quello fosse l'unico modo per difendersi. Forse era incentivato dal fatto che con lui ci fosse la bella Renée, e pertanto questa poteva essere una ragione in più per portarsi appresso quella minacciosa ma attraente rivoltella.

Mentre Renée, avvolta dal buio di quella fredda notte, camminava al fianco di Arthur, riuscì per la prima volta a liberarsi da quelle assidue ed insolite farfalle che fervevano nel suo stomaco. Era un'emozione gradevole mista all'urtante. L'aveva già provata in precedenza, e nemmeno poi così di rado. Si sentiva a quel modo anzitutto quando voleva parlare, ma non lo faceva per timore di non esser compresa. In parole misere, quando si teneva tutto dentro.

Chissà se ora, come in primo luogo non era riuscita, aveva finalmente esentato la sua vera persona, e non attraverso parole, per le quali non era strettamente legata, ma più tramite i suoi occhi e anche solo il respiro e il battito del cuore, rallentati sensibilmente. Le strade su cui adesso passavano erano oramai deserte, tranne per qualche sventurato mezzo ubriaco, di prassi presente in ogni angolo di Gotham.

"Mh, okay. Una volta scoperto non esiste più. Cos'è?" chiese lei con entusiasmo, controbattendo all'indovinello di Arthur, esternato da lui poco fa. Lui fece finta di pensarci intensamente, portando un dito alla bocca e picchiettandolo ripetutamente su di essa.
"Non lo so, non lo so proprio!" rispose con tono immaturo e abbozzando un sorriso.
"Un segreto!" porse la soluzione, con intensità tale da far pensare che lo ritenesse più che ovvio.

Risero, e in quel momento si sentirono come infatuati da quell'aria frizzante che circolava vicino a loro, fin dall'inizio della serata. Renée non pareva così infantile nemmeno quando beveva.
Arrivarono di fronte al palazzo di lei. Si fermarono a qualche metro di distanza dall'entrata dell'edificio, mettendosi uno di fronte l'altra. Erano occasionalmente illuminati da un fascio di luce lunare, milioni di stelle riflettevano nelle pupille dei due.

Renée avrebbe tanto voluto invitarlo e farlo restare con lei ancora per un po', e sarebbe stata disposta, se fosse stato necessario, anche ad offrigli di trattenersi a dormire nella sua brulla abitazione. Ma l'altra parte di lei, quella più irresoluta, glielo impediva.
"Sono stata bene, stasera."
"Si?" domandò lui alzando la vista e penetrando profondamente lo sguardo di lei. Renée, sotto quell'atmosfera piena di leggerezza, capí a fondo la sofferenza che si celava dietro il verde dei suoi occhi.

"Si" disse lei piano, come se, il trasporto presente nell'etere, la conducesse a far fatica nel parlare.
"Beh, anche io" commentò mettendosi le mani in tasca. Stavano entrambi attendendo qualcosa che sapevano non sarebbe arrivato. Solo non percepivano cosa.

"Ci vediamo domani alle quattro, allora." Arthur sorrise ricordandosi delle loro ordinarie sedute, e allargò ancor di più la bocca afferrando che lei s'era rammentata l'ora esatta in cui si presentava dinanzi al suo ufficio. Renée non capì il motivo della sua contentezza, si voltò e si diresse verso il grande e vecchio portone.

Con la mano sullo sporco vetro dell'ingresso, appena prima di spingerlo con coraggio ed entrare irrevocabilmente, si girò verso Arthur, che era fermo a guardarla, nella medesima posizione di prima. Lui tirò fuori dalla tasca destra la sua mano e le fece un cenno di saluto. Lei ricambiò l'identico gesto e, alfine, entrò nel palazzo. Fece con lestezza ogni scalino finché non arrivò al suo piano, il terzo.

Entrò con irruenza nel suo appartamento e, prima anche solo di chiudersi la porta alle spalle, andò di fronte la finestra del suo piccolo salotto. Lui era ancora lì, con la differenza che aveva una sigaretta tra le dita e guardava la luna, verso le spalle della sua abitazione.

Intanto lui pensava a quanto si sentisse rammaricato in quell'istante. Osservò com'era difficile distrarsi, anche per poco, dalla disillusione che regnava su ogni avvenimento della sua drammatica vita. Se solo tutte le persone fossero state come lei, rifletteva lui, allora sarebbe valsa la pena di vivere.

|𝑰𝒏𝒔𝒊𝒅𝒆 𝒐𝒖𝒓𝒔𝒆𝒍𝒗𝒆𝒔| ~JOKERDove le storie prendono vita. Scoprilo ora