Capitolo 10

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Bussò con eccessiva foga. Quando aprì il suo angelico viso apparve leggermente preoccupato, forse dal fragore che Arthur aveva causato nel picchiare così energicamente l'entrata. Lui, senza aspettare secondi superflui, afferrò il viso di lei, e come se per un momento tutta la desolazione fosse scomparsa, posò con vigore, quasi furia, le labbra sulle sue. Renée, per quanto confusa e piena di risentimento nei suoi confronti, non oppose resistenza.

Chiuse, con un fiacco calcio, la porta e gli buttò le braccia al collo. Arthur indusse Renée sul piccolo divano e lei si fece trascinare con tutta se stessa dal desiderio di quell'ardente bacio.
"Sei tornato" disse lei sorridendo sulla sua bocca.
"Sei stata tu ad andartene" rispose lui serio, ma riprendendo subito dopo a baciarla. Non voleva ricordare la fitta di strazio che provò quando lo lasciò solo tra i suoi malati pensieri. Ora lei era qui, e voleva, più di ogni cosa adesso, che anche lui fosse lì.

Arthur si tolse la giacca dal tono smagliante e la buttò per terra, trovò che non ci fosse tempo per riporla con troppa cura su di un appendiabiti. Renée, adagiata al di sotto di lui, lo guardò per qualche momento con occhi raggianti, rapita da ogni suo movimento.

Non sapeva come spiegarselo, in che modo erano arrivati a quel punto? Un terribile senso di abbattimento si fece strada in lei, quando pensò se quel giorno, l'uomo che ora era appiccicato a lei, non si fosse presentato nel suo ufficio. Si ripeteva continuamente che la vita s'era sempre presa gioco di lei, ma questa volta fu benevola, così clemente che la donna faceva fatica a credere che fosse la realtà.

Lui prese a sbottonarsi la camicia e, senza indugio, levò pure quella. Renée, dentro di sé, aveva sempre pensato che fosse un po' troppo magro, ma ora si era accorta che era davvero grave. Con la sua minuta mano, sfiorò con premura il suo dorso, cosparso qua e là di tremendi lividi.
"Non avere pena di me" sussurrò lui vicino al suo orecchio, affondando il viso tra i suoi capelli.
"Non è pena, è apprensione."

Quella notte, come forse mai era stato fatto prima, si erano completati per davvero. Non si poteva più riconoscere dove cominciava l'uno e finiva l'altra. Era tutto perfetto, se non per lo smarrimento che dominava lo sguardo di Arthur. Lei si era addormentata avvinghiata al suo scarno corpo, e lui aveva la vista rivolta verso il soffitto. Il trucco era ormai sparso con disordine per il suo volto, e il rossetto era andato ormai tutto sulle labbra di Renée.

Non provava pentimento. Non provava nemmeno più disappunto. Ma aveva il cuore pesante, doveva dirlo a Renée.
"Ho ucciso due persone" disse piano, sapendo che lei non l'avrebbe sentito.
"Ho ucciso due persone" ripetè iniziando a sogghignare. Lei si svegliò e si stropicciò gli occhi. Arthur pensò che mai fu stata più bella di così.

"Perchè ridi?" chiese con voce assonnata, alzando il viso verso il suo.
"Mi spiace, non volevo svegliarti" mormorò lui, tirandosi a sedere per poi alzarsi in piedi. Renée, che usava il suo torace come cuscino, si mise a sedere a sua volta, incrociando le gambe e guardando Arthur uscire dall'apertura che dava sull'angusto balcone. Era ancora notte fonda, la veduta sottostante a lui era solo il nero più profondo unito a qualche scia di bagliori, proveniente dagli sconfinati grattacieli.

Appoggiò i gomiti sulla ringhiera e s'accese una sigaretta. Gli importava davvero di ciò che avrebbe pensato quell'affabile ragazza? Non lo sapeva e non poteva saperlo. Intanto arrivò anche lei, preoccupata che a petto nudo, in pieno inverno, Arthur potesse aver freddo.
"No, sto bene" rispose lui con voce quasi stridula. Lei si accostò con la schiena al parapetto, tenendo le braccia conserte. Il suo alito formava delle piccole nuvolette di fumo. Era decisamente la stagione fredda.

"Devo dirti una cosa" disse buttando giù dal balcone la sigaretta e abbassando la testa.
"Beh, dimmela" rispose Renée, completamente all'oscuro di quello che avrebbe potuto controbattere. Sperava che, in un certo senso, ora le avrebbe mostrato il motivo per cui ultimamente era così strano, taciturno.

"Sai...ho sopportato tutto questo tempo, in silenzio" cominciò prendendo a fare dei gesti plateali con la mano.
"La sofferenza non ha confine!" disse guardando dritto davanti a sé, il vuoto più intrinseco. Renée restò muta. Lui fece un risolino.

"Devono ricordarsi che le persone che calpestano, diventano più forti di quanto vorrebbero. Io...ho solo lasciato che le cose accadessero" disse alzando le spalle, a tratti con superficialità.
"Che vuoi dire?" chiese lei spostando lo sguardo verso di lui. Arthur si girò a sua volta verso di lei. Leggeva chiaramente il panico nei suoi occhi. Aveva già forse intuito? Si disse che fosse impossibile, e continuò la sua meditazione piena di compiacimento.

Tirò fuori, molto lentamente, la sua 38, per facilitare la sporca confessione. Renée portò, istintivamente, una mano alla bocca. Infondo non era nemmeno poi così difficile da crederci. Ma nemmeno lei era la donna che Arthur credeva che fosse. Doveva, in un qualche modo, nascondere quella inconfessata somiglianza tra i due, con dello stupore. Era perspicuo che lo sentisse davvero, nello stomaco, questo senso di sconcerto e paura.

Troppa tensione, sfrenata pressione. Renée era come schiacciata da questa verità. Arthur raccontò tutto, per filo e per segno. Non omise alcun dettaglio. Lei raggelò sentendo quelle vivide parole. Gli stessi disperati occhi dell'uomo raccontavano quelle faccende agghiaccianti. Con un faticoso nodo in gola, Renée rientrò, mentre Arthur ancora parlava di sangue, e velocemente raggiunse la porta d'uscita. Arthur la seguì.

"Oh, coraggio! Ho fatto quello che andava fatto. Il mio capo era un bastardo!" disse ridendo.
"Per non parlare del proprietario del Po..."
"Non una sola parola" lo interruppe lei bruscamente. La durezza traspariva chiaramente nella sua tremante voce. Aprì la porta e gliela indicò. Arthur si fece d'un tratto risentito. Gli occhi di lei erano lucidi. Arthur appurò che era inutile sprecar tempo con una persona che non lo scolpava. Questo non significò, però, che dovesse iniziare a sentirsi in errore.

Nel fondo, in quell'istante, non smise di nutrire speranza che ancora lo capiva. Come poteva? Era stata la prima a tormentarsi per lui, di tutta la sua intera vita. Mise un piede fuori dall'appartamento, ma poi si fermò, volgendosi indietro, verso di lei. Una lacrima le rigò il viso e lui gliel'asciugò con il palmo della sua mano. Lei non si ritrasse dal suo tocco, restò immobile. Questo significava molto, più di quanto lei pensasse.
"Io lo so che sei come me" disse piano lui e, un attimo dopo, uscì, sparendo tra le ombre del mondo al di fuori di loro.

|𝑰𝒏𝒔𝒊𝒅𝒆 𝒐𝒖𝒓𝒔𝒆𝒍𝒗𝒆𝒔| ~JOKERDove le storie prendono vita. Scoprilo ora