Capitolo 11

185 18 3
                                    

Per tutto il tragitto verso casa tenne la testa china. La sua vita era disseminata di delusioni, avrebbe dovuto imparare a non aspettarsi più niente. Eppure ricadeva sempre nello stesso errore. La speranza era il suo più grande nemico.
Cosa farò?
Che ne sarà di me?
Non riusciva a darsi una risposta. Chiuse a chiave la porta di casa e rimase nascosto nella sua stessa ombra per fin troppo tempo.

Renée tornò alla sua vita, come la volta precedente, senza saper più niente di lui e senza trovarne alcuna traccia. Che diavolo faceva quell'uomo da solo per tutto quel tempo? E come viveva senza un lavoro? Se lo chiedeva in continuazione. L'ultima volta che lo lasciò solo, non andò a finire bene. Pensò a chissà quali altre cose sarebbe stato in grado di fare. Smise subito, in quanto le si presentarono davanti alla testa delle immagini raccapriccianti.

Arrivò una paziente, nel suo ufficio, che soffriva di un disturbo d'ansia. Nulla d'impegnativo, ma mentre la donna parlava, Renée ebbe modo di pensare. Le capitava troppo spesso, ormai, di essere distratta a lavoro e durante qualsiasi attività lei svolgesse. Non poteva negare che la colpa dei suoi persistenti allontanamenti dal mondo reale era di Arthur. Non avrebbe mai voluto conoscerlo, ma ormai era troppo tardi.

E se davvero non l'avesse incontrato, quale immane tediosità avrebbe invaso i suoi giorni? Non sapeva decidersi, come mai fin dall'inizio della sua straziante vita.
"Mi sta ascoltando?" chiese la donna davanti a lei, preoccupata d'aver solamente dato aria alla bocca.
"Ehm, certo" rispose e, salvata dal disagio, entrò autorevolmente un uomo. Se solo avesse saputo chi fosse e, soprattutto, cosa volesse, avrebbe preferito sopportare il pietoso imbarazzo.

"Signorina Dumont?" chiese con durezza.
"Si" rispose timidamente alzandosi in piedi. La paziente fu costretta a lasciare la stanza. Quell'uomo era il detective Miller, una persona riverita da ognuno dei cittadini di Gotham, o perlomeno da coloro che seguivano le leggi. Ne rimanevano quasi pochi, oramai, ma era inevitabile che i più agiati, nonché nella maggior parte dei casi anche i più viscidi, avessero bisogno di adulare persone di quel calibro e, ancor più, di mantenersi e manifestarsi fedeli alla giustizia. La giustizia che non sempre, o per meglio dire quasi mai, era per davvero giusta. Era una società corrotta, quella in cui, come Renée, una quantità notevole di persone vivevano, stando in silenzio.

Il detective si sedette di fronte a lei. Renée aveva un nodo così stretto in gola. Era davvero qui per lei? Sapeva il suo cognome, indubbiamente avrebbero chiacchierato, per così dire, a riguardo di qualcosa di oltremodo personale. Ma era possibile che fosse per quello che lei pensava? Insomma, erano passati tre anni da quella tremenda notte. E poi aveva oramai assodato che la polizia, in questa faccenda, non aveva il ben che minimo interesse nel ficcarci il naso. Al contrario, fiutò che volevano starne il più lontano possibile, e non avevano tutti i torti. Non immaginò, però, che poteva trattarsi di...

"Arthur Fleck...era un suo paziente, giusto?" Non potè evitare, a quel punto, di cominciare a sudare freddo. Nello stomaco ritornò la solita sensazione che provava quando pensava a lui e il peggio era che avvertiva anche paura, quel sentimento crudele che risiedeva nel fondo di lei. Ora era ritornato a galla.

"Si, a questo punto veniva qui regolarmente" rispose incrociando le gambe. Non era mai stata brava a mentire, ma era sicura che l'avrebbe fatto. In qualche modo, anche se non si parlavano da giorni, si sentiva in dovere di proteggerlo, per quanto ne fosse capace e, soprattutto, per quanto fosse possibile.
"Che mi sa dire di lui? Aveva quei...disturbi...cosa mi può dire a riguardo?" Renée rimase spiazzata dalla sfacciataggine con cui lo domandò.

"Lei ha la minima idea di cosa sia il segreto professionale? Mi dispiace davvero, ma certe cose sarei tenuta a non dirle. E poi, non voglio entrare, in alcun modo, in queste storie così contorte e spesso, con mio dispiacere, senza fine. Il mio obbligo è quello di cura, non di denuncia."

L'investigatore rise lievemente.
"Ragazza...ho un mandato. Si tratta di un accusa di omicidio! Qui è un inferno, tesoro, non pensare che per me sia piacevole stare qui a parlare di malattie mentali e altre cazzate! Non ho tempo soprappiù da sprecare con dei depravati pazzi. Dimmi quello che sai, più in fretta parli più velocemente finirà la tortura."
Renée spalancò gli occhi dalla sorpresa. Non sapeva se stupirsi per l'insensibilità con cui dava peso alle parole o più per il suo tono di voce tremendamente irritato e, al contempo, disturbante. Nel nome della sua fiducia nei confronti del diretto interessato, negli occhi di Renée s'accese l'odio più puro. Non era al corrente del perchè di quel fuoco così intenso, ma era certa che stava sovrabbondando velocemente.

"Le malattie mentali non sono cazzate" disse piano a denti stretti.
"Come dice?" chiese lui per prendersi gioco della sua facile suscettibilità.
"Le malattie mentali non sono cazzate e quel suo fottutissimo mandato non mi dimostra altro che la sua frivolezza del cazzo!" strepitò alzandosi in piedi e sbattendo le mani sulla scrivania. Era stanca di tutto. Questa volta non poteva tenersi dentro l'avversione.

L'agente se ne andò e, prima di lasciare l'edificio, affermò che sarebbe tornato quando quella "ragazzina malata di nervi" si fosse calmata. L'aveva combinata grossa, ora ne era risolutivamente dentro, fino al collo. Seppur ancora orario di lavoro, fuggì anche lei, con impellenza. Le sembrava un'immenso dejavu. Si ritrovò ancora davanti l'appartamento di Arthur. Si disse che questa volta, forse, aveva una valida motivazione per essere lì. Stavano indagando su quegli efferati omicidi, e le prove erano abbastanza per ricorrere a lui.

Davanti a quella porta, accostò sopra ad essa nuovamente l'orecchio e udì, ritornando a quel preciso attimo di molti giorni prima, della musica. Era tutto così assurdo, non cambiava mai, quell'uomo. Almeno riusciva a stabilire se fosse in casa oppure no. Bussò trattenendo il respiro, appoggiando immediatamente dopo il viso sul battente. Ed ecco che, in una forma quasi prevedibile, la musica si interruppe.

Silenzio. Si sentiva solo l'affannato respiro di Renée e il peso del tempo che scorreva, come sempre, inarrestabile.
"Arthur!" disse lei per farsi sentire da lui. Avvertì il leggero rumore di un piccolo movimento all'interno della stanza.
"Arthur lo so che ci sei" continuò abbassando la voce, pienamente consapevole del fatto che lui fosse dalla parte opposta ad ascoltarla. Sentiva il cuore di Arthur vicino al suo.

"So e capisco benissimo anche perché tu non voglia aprirmi, ed è okay. Ma ti chiedo scusa. Perdonami perchè sono una maledetta vigliacca."
L'assenza di rumori persisteva. Questa volta la voce di Renée, spezzò la quiete con voce rotta. Si sentiva terribilmente in colpa, e dannatamente sola.
"Sono una buona a nulla! Sono la rovina di me stessa e di chi mi sta attorno. Perdonami, Arthur."

Un singhiozzò sospese quella pace profondamente astratta. Tirò su col naso e si accasciò per terra, con il corpo appoggiato alla porta.
"Avevi ragione. Siamo uguali."

|𝑰𝒏𝒔𝒊𝒅𝒆 𝒐𝒖𝒓𝒔𝒆𝒍𝒗𝒆𝒔| ~JOKERDove le storie prendono vita. Scoprilo ora