Capitolo 13

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Il suo piano era infallibile. O quanto meno lui ne era fermamente convinto. Aveva capito che adempiere a quel modo così istintivo e imprudente non avrebbe portato altro che un disordine mal manovrato e, anzitutto, avrebbe accompagnato anche il rischio d'essere rintracciato e bloccato. Lui desiderava solo una sommossa confusionaria. Esecrava le regole.

Era pienamente a conoscenza del fatto che presto i suoi crimini sarebbero tornati a prender fiato e non se ne preoccupava quanto doveva. Che importanza aveva, infondo? Non sarebbe cambiato, nemmeno se fosse stato costretto a passare il resto della sua vita chiuso in un carcere. Per giunta, dal '76, la Corte Suprema non applicava più la pena capitale. Seguendo la sua metodologia, non correva alcun tipo di pericolo effettivo. D'altronde non gli premeva, al contrario era come adescato dall'idea di sperimentare la vita da recluso.

Quel giorno decise che per la fragile Renée fosse abbastanza, non voleva stancarla ulteriormente raccontandole dei suoi intricati e indisposti progetti. Si accorse per la prima volta della significativa vulnerabilità della donna avvinghiata al suo scarno corpo.
Erano simili in quanto entrambi incassassero i duri colpi che la vita
serbava loro, senza difendersi.

Ma lui stava dando inizio ad un era di cambiamento. Aveva premuto il grilletto e ne aveva provato gusto. Per Renée non era ancora arrivato quel momento. O almeno non del tutto, pensò tenendo a mente di ciò che gli riferì poco prima. Ma quel Walter, rifletté, sarebbe potuto benissimo essere anche solo l'inizio di una graduale crescita, come la sua. Per il momento persisteva la confusione nella testa di Arthur, che si chiedeva se mai sarebbe arrivato il momento della sua vera e propria mutazione.

Era la persona più insicura che avesse mai conosciuto. Mentre lui la guardava, spesso la vedeva cercare di nascondersi tra i suoi morbidi capelli. Aveva timore di come appariva agli occhi delle persone. Secondo Arthur avrebbe dovuto ficcarsi ben in testa che per lui era favolosa. Ma non era affatto facile.
"Come farai adesso, Arthur?" chiese lei sussurrando.
"Che vuoi dire?"
"La polizia ti sta alle calcagna." Nuovamente era tornato quel suo senso di allarme nei suoi confronti. Non riusciva a darsi pace, era costantemente impensierita per lui.

"Che mi sbattano al fresco, io ho fatto la cosa giusta" disse ripensando al sangue che perdeva dai corpi pallidi di Carter e del possessore del Pogo.
"Come puoi non aver paura?" domandò lei agitata, mettendosi a sedere composta, più distante da lui.
"Cosa possono farmi quei figli di puttana, eh?" esclamò portandosi una mano sui capelli, ancora verdi. Si notava palesemente come cominciasse a infastidirsi nel dover parlare sempre dello stesso episodio.

"Ti porteranno via da me" disse infine lei, rassegnata. S'era accorta per prima di essere andata oltre con questa storia. Che se non le importava come diceva, avrebbe dovuto aspettare che le cose accadessero, senza assillarsi. Ma era fatta così. Era maledettamente paranoica, e questo lato di lei ad Arthur non piaceva.
"Se mi portano via da te, io scappo e ritorno." Renée sorrise.

L'ennesima settimana passò. La pubblica sicurezza venne direttamente a casa del sig. Fleck in persona. Quest'ultimo era scappato per abbastanza tempo, prima o poi avrebbe dovuto affrontare l'incresciosa conversazione che altrimenti avrebbe avuto luogo dinanzi un giudice, in tribunale.
"Lei lavorava presso l'agenzia artisti da strada haha, non è vero?" domandò Miller pungente.
"È esatto" rispose Arthur aspirando una boccata di fumo dalla sigaretta che teneva disinvoltamente tra l'indice e il medio.

"Perché l'hanno licenziata?"
"Una domanda ovvia, non trova?" controbatté beffardo l'imputato.
"No, non la reputo ovvia."
"Avrebbe chiuso bottega di lì a poco. Che razza di agenzia del genere può essere in regola? Non potevano certo permettersi di continuare a pagare un disgraziato uomo come me, le pare?"
Miller continuò a prendere appunti sul suo sgualcito taccuino in pelle.
"Beh, Fleck, girano voci che portasse una pistola con sé..." Arthur sbuffò divertito. Imprevedibilmente se l'aspettava.

"Suvvia, perchè le persone se la prendono per uno stupido giocattolo? Non l'hanno mai pestata, vero detective? Se solo sapesse cosa ho dovuto passare ogni giorno della mia dannata vita. Serviva per intimidire gli aggressori, nulla più" disse calmo. Avrebbe voluto inasprire ancor di più la sua discolpa, ma infondo non aveva nulla di cui scusarsi. In quella bugia c'era un fondo della più pura verità.

"E come se lo spiega che a distanza di un giorno dal suo licenziamento, il suo capo venne trovato con una pallottola in testa?" Arthur prese qualche secondo in silenzio per pensare.
"Magari si è ammazzato. Gliel'ho già detto che le cose andavano male, no?"
"La smetta di rispondere alle mie domande con altre domande" disse Miller stizzito. Arthur fece un risolino, ma l'agente non se ne curò.

"Diversi giorni fa ho parlato con la sua terapista. La sig.na Dumont." L'agente fece una pausa per osservare la sua reazione. Lui era più quieto dell'oceano quand'è un'asse.
"Non ha voluto lasciarsi sfuggire nemmeno una parola riguardo lei."
Arthur annuiva lentamente.
"Non vedo dove sia il problema."
"C'è qualcosa, non è vero Fleck?"
"Si" rispose semplicemente lui.

"Sa qual'è la cosa buffa?" domandò Miller portandosi un dito alla bocca.
"Mi allieti, detective" rispose Arthur in tono derisorio.
"Dumont affermò di non voler avere nulla a che fare con questa storia, definendola contorta e senza fine." Prese una sosta, e Arthur non riusciva proprio ad immaginare cosa ci fosse di davvero buffo in ciò.
"Eppure" riprese il detective "...io non avevo accennato ancora nulla riguardo questa contorta e senza fine vicenda."

|𝑰𝒏𝒔𝒊𝒅𝒆 𝒐𝒖𝒓𝒔𝒆𝒍𝒗𝒆𝒔| ~JOKERDove le storie prendono vita. Scoprilo ora