14 - Rabbia

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Intenso. Il suo sguardo è sempre stato così intenso.

Degli occhi del genere non possono che esserlo. Così finemente intagliati nel suo viso, come se fossero fatti apposta per trapassare la pelle di chi è abbastanza fortunato da meritare un suo sguardo diretto, per entrargli nel sangue e trafiggergli il cuore, e non uscirne mai più.

"Tu dici che ti allontano."

Annuisco appena, incerto sulla piega della conversazione.

"E mi chiedi perché."

Ripeto l'azione precedente, sempre più perplesso.

Un respiro profondo, chiude gli occhi e li riapre, e sembrano un po' più dolci di prima. Nostalgici, quasi.

Si alza in piedi con un altro sospiro e mi osserva con le mani nelle tasche dei jeans.

Il suo sguardo cambia ancora. Ora è arrabbiato.

Perché lo trovo quasi liberatorio? Rassicurante.

Kacchan è arrabbiato. Lui lo è sempre, è la sua natura, fin da quando lo conosco.

Il fatto che sia cambiato, che sia sempre calmo, l'ho interpretato come una crescita, una maturazione, ma non mi ero mai reso conto di quanto in realtà mi lasciasse lontano da lui, e di quanto mi inquietasse e mi intristisse.

La sua rabbia è il suo modo di esprimersi, perciò come può farlo, sempre silente e tranquillo? Che sia per via della scrittura? Avendo trovato un altro modo di esternare i suoi sentimenti non ha più bisogno di urlare o di venire alle mani?

Eppure è quello che lo rende lui.

"Perché adesso mi vieni a chiedere una cosa del genere, ah?!" Urla, gesticola, è tutto quello che ha trattenuto da quando siamo tornati in contatto, tutto quello che si è tenuto per sé, in ogni risposta accennata, in ogni silenzio.

Il limite tra 'non lasciarlo scappare' e forzare l'ho saltato a piè pari.

"Hai idea di quanto sia stato difficile, in tutti questi anni, eh? Sei assurdo, un idiota. Non ho mai incontrato nessuno più cretino di te, non posso crederci! Sul serio, in cinque anni tu non hai mai capito che ti allontanavo e ci sei arrivato adesso?"

Resto immobile. Per una volta, non mi ritraggo, non ho paura.

Beh forse un filo.

Ma altre emozioni la sovrastano pienamente.

Non so quali, non le comprendo. Ma lo guardo e so che quello che sta succedendo è giusto, e che porterà a qualcosa di buono.

Si porta le mani alla testa, premendosele sulle tempie e sugli occhi. I piedi impazienti e agitati pestano il suolo con urgenza.

"Vattene!" Urla poi, e le linee sulla sua fronte tremano.

Ha paura. È spaventato da se stesso.

Non mi muovo. Non gli lascerò avere ragione, non permetterò che creda di essere incontrollabile, pericoloso, che creda che l'unica soluzione per non fare male alle persone sia restare solo.

"Vattene, ho detto!" Grida più forte, gli occhi spalancati, le iridi scarlatte brillanti d'ira.

Resto fermo, sono addirittura più calmo di prima. Una piccola parte di me si chiede perché non sia turbato. Non c'è un motivo. Non lo sono e basta.

"Dannazione, ascoltami!"

Chiude il pugno e muove il braccio verso di me, non chiudo nemmeno gli occhi.

Non mi ha mai colpito. Non sono in pericolo.

Infatti, il suo pugno non colpisce che il divano, e lui urla frustrato. Colpisce anche il tavolino, con l'altra mano. Il tablet cade all'indietro, fortunatamente senza finire a terra.

Per merito d'un treno • KatsudekuDove le storie prendono vita. Scoprilo ora