Columbine, un cappello a tesa larga a coprirla dai raggi impenitenti del sole, osservava sua figlia.
Euphemia aveva ormai tre anni, anche se i lineamenti affilati e la piega quasi crudele della bocca la facevano sembrare un'adulta in miniatura. Columbine, a volte, era costretta a distogliere lo sguardo: non sopportava l'evidente somiglianza con il fratellastro. L'amava, certo. Era sua, carne della sua carne. Ma Euphemia era una bambina particolare, indipendente, poco incline alle smancerie. Era come se, fin dalla nascita, si fosse resa conto del sentimento ambiguo che sua madre nutriva per lei e avesse deciso di costruirsi intorno una fortezza inespugnabile. Un meccanismo di difesa innato ed impeccabile, che si era tramutato in una garbata coesistenza, priva della simbiosi che ci si aspetterebbe tra una madre e una figlia così piccola.
Euphemia aveva solo chiesto una volta di "papà", ma la risposta glaciale della madre l'aveva fatta desistere. Siamo solo io e te, le aveva detto. Fattene una ragione. Il suo tono, pieno di livore e assolutamente inappropriato, si era instillato nella bambina, insieme all'impressione di essere sgradita a Columbine e di dover ridurre al minimo le parole.
Euphemia aveva imparato a giocare da sola, per ore e ore.
Columbine, infatti, si era rifugiata in un paesino dell'entroterra francese, a pochi chilometri dal mare. Si era ricostruita una vita come psicologa. Non che ci fosse una differenza abissale tra la psiche dei maghi e quella dei babbani, anzi. I nodi irrisolti, i conflitti, le gelosie, le sofferenze erano gli stessi. E lei era sempre stata brava ad individuare il punto dolente, districandolo con le parole. Riceveva principalmente donne e ragazzine, mentre aveva bandito gli uomini dalle sue sedute. Aveva già compiuto abbastanza disastri e non intendeva replicare ciò che era successo in Inghilterra.
Ovviamente non aveva dimenticato quanto accaduto. E come avrebbe potuto?
Euphemia era una conferma costante dei suoi errori, della sua immaturità emotiva, del suo fallimento professionale e umano. Dopo Draco, non si era più innamorata di nessun altro. Le occasioni non erano mancate, certo, ma si era imposta di non cascarci. Non di nuovo.
Non leggeva più la Gazzetta del Profeta. Si faceva consegnare le riviste del settore sotto falso nome, per evitare di essere rintracciata. Non voleva essere trovata.
Spesso, di notte, quando la casa era buia e silenziosa, si chiedeva che cosa fosse stato detto o scritto sulla sua scomparsa. L'avevano cercata oppure, dopo un paio di battute di circostanza, avevano preferito declassarla come allontanamento volontario? Qualcuno aveva sentito la sua mancanza? Era una domanda a cui preferiva non avere risposta.
Poi, un giorno di fine novembre, era arrivata una lettera. Il mittente era Harry Potter.
Lo aveva pensato spesso, in quegli anni. Nonostante tutto, non la stupì che l'avesse trovata. Era pur sempre un Auror di talento. E aveva il mondo ai suoi piedi.
Soppessò a lungo la busta, prima di avere il coraggio di aprirla. Rivolse uno sguardo di sottecchi ad Euphemia, che stava facendo una gara di salti con il ranocchio che le aveva regalato per Natale. Columbine non aveva avuto il cuore di dirle che non si sarebbe mai trasformato in un principe azzurro. L'amore non esisteva, ma sua figlia lo avrebbe scoperto da sé. A tempo debito.
Harry le aveva mandato un ritaglio di giornale, su cui campeggiava un titolo che le fece accapponare la pelle: "Draco Malfoy chiede la mano di Astoria Greengrass". Divorò velocemente l'articolo, che però era parco di informazioni e dettagli. Era più uno sterile bollettino di guerra e lei era annoverata tra i caduti.
La fotografia ritraeva un Draco imbrociato, quasi ombroso, al fianco di una ragazza raggiante e ben vestita.
Columbine sospirò, nauseata. Tutto il lavoro che avevano fatto insieme, le ore trascorse a distruggere le sue paure, a far emergere il suo vero io... non avevano portato a niente.
Draco era nato per soddisfare i desideri altrui, soprattutto quelli dei suoi genitori. Era un'appendice di Lucius e questo, purtroppo, non sarebbe mai cambiato.
A meno che...
Columbine non riusciva a credere ai suoi occhi.Dietro all'articolo, in una calligrafia disordinata, Harry le aveva scritto qualcosa, una specie di supplica: "Ha bisogno di essere salvato da se stesso, soltanto lei può aiutarlo."
Non c'era altro nella busta.
Solo una richiesta d'aiuto disperata da parte di un giovane uomo, che - proprio come lei - non era mai riuscito a dimenticare.
Angolo dell'autrice: Surprise! So che avevate perso le speranze. Ma, a giudicare dalla quantità di messaggi privati e commenti che mi sono arrivati in questi anni, non avete mai dimenticato questa storia. E così, oggi pomeriggio, ho deciso di rimetterci mano. Questo capitolo ne è il risultato. Spero che continuiate a seguirmi con affetto. Grazie mille, vi abbraccio <3
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IN TREATMENT
Fanfiction"Draco" lo chiamò sorridendogli. "Sì, Madre" rispose automaticamente lui, rivolgendole uno sguardo interrogativo. "Penso che sia arrivato il momento di parlare del tuo piccolo ... disturbo notturno" Il diciottenne si irrigidì immediatamente, mentre...