Capitolo XII

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L'amore, come la morte,

cambia tutto

(Khalil Gibran)

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Cap. XII

Rey era immersa nel buio. Sentiva le grida disperate di Temiri, ma era come se provenissero da molto lontano. Le sembrava di essere chiusa in una bolla, attraverso la quale i rumori le giungevano attutiti. Un dolore lancinante alla fronte le impediva di concentrarsi e captare ciò che le stava attorno.

Percepiva il battito del suo cuore, era lievemente accelerato ma si andava regolarizzando, schiuse le labbra e si sentì invadere la bocca da un sapore di sangue.

La fame d'aria la costrinse a prendere un ampio respiro ma, un'improvvisa fitta ad una costola, gli spezzò il fiato in gola.

Doveva essere proprio ridotta male.

Era sdraiata su un fianco, su un terreno morbido e umido, e qualcosa di pungente le pizzicava la faccia e le braccia scoperte.

In quel caos di smarrimento e dolore, riuscì a percepire un tocco caldo e gentile sulla guancia, e si sforzò di aprire le palpebre che parevano incollate.

La vista offuscata le impedì di mettere a fuoco quello che aveva davanti ma, lentamente, la nebbia che le velava lo sguardo si diradò, permettendole di scorgere un viso, a distanza ravvicinata: una macchia rosea contornata da un alone più scuro. A primo acchito le sembrò che si trattasse di Temiri, anche se non riusciva a scorgere perfettamente i suoi lineamenti. Strizzò le palpebre più volte fino a quando, l'immagine di quel volto, chiaramente infantile, non le apparve in modo nitido.

Corrugò la fronte dolorante, senza riuscire a muovere nessun altro muscolo, e si rese conto che il bambino che aveva di fronte, e che era chinato su di lei con aria preoccupata, non corrispondeva a chi pensava che fosse. Aveva i capelli molto più scuri e lunghi, che arrivavano a sfiorargli le spalle esili, le fattezze erano sottili, delicate, e la pelle diafana. Dei grandi e limpidi occhi azzurri, dal taglio lievemente allungato, la fissavano spalancati e preoccupati. «Stai bene?» le chiese, con un timbro di voce più caldo e basso rispetto a quello di Temiri, continuando ad accarezzarle la guancia con la punta delle piccole dita.

Annuì e deglutì, sentendo in gola un disgustoso sapore metallico. Forse stava sognando, o era ancora svenuta, ma la sostanza non cambiava: si sentì pervadere da un intenso senso di panico. Cercò di sollevarsi, ma le membra erano come paralizzate, incatenate al suolo, pesanti come macigni. Era intrappolata e sfinita.

«Chi sei?» domandò ansimando, mentre le pupille attente del bambino saettavano su di lei per scrutarla, in un modo fin troppo famigliare.

«Sono Han» rispose, senza alcuna esitazione, e quel nome la fece sussultare, accendendole un campanello d'allarme.

Qualcosa finisce. Qualcosa iniziaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora