11. Isola

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Giugno 1820, su una nave pirata


Il capitano David mi concesse di dormire indisturbata tra le calde coperte del suo letto, impregnate del suo odore virile, per quelli che alle mie membra stanche parvero pochi minuti.

Mi svegliai più infiacchita rispetto a quando era andata a dormire, la mente annebbiata e le palpebre che faticavano a rimanere aperte.

«Caterina, venite!», mi incitò il pirata, indicando con un veloce gesto del capo la porta della cabina.

Quando vide che non avevo intenzione di alzarmi, si avvicinò a me e mi sollevò in piedi con la forza.

«Non mi toccate, manigoldo!», urlai, cercando di ribellarmi, impaurita che le sue intenzioni potessero essere disdicevoli.

«Dobbiamo scendere dalla nave, Caterina», disse lui con tono rude, afferrandomi per un braccio: «Volete forse rimanere qua, senza viveri e acqua per giorni e giorni, mentre attendiamo una missiva di risposta dal vostro amato duca?»

Solo in quel momento notai che la maggior parte delle carte, che si erano trovate sulla scrivania prima che mi addormentassi, e alcuni dei vestiti sparsi per la cabina erano scomparsi.

«Dove stiamo andando?», chiesi, con la voce che mi tremava leggermente per il nervosismo e la paura.

«In un posto sicuro, dove potremo attendere notizie dal vostro amato», disse il pirata, aspramente, mentre mi trascinava poco galantemente verso la porta della cabina.

Avrei voluto liberarmi da quella stretta, ma sapevo di essere troppo debole e non volevo rischiare di ottenere dei lividi indesiderati sulla mia pallida carnagione aristocratica, decisi quindi di protestare soltanto a parole per quel trattamento rozzo, che non si addiceva alla mia persona.

«Capitano David, gradirei essere trattata con maggiore cura e attenzione», pretesi, il naso sollevato verso l'alto e le labbra strette in una linea sottile: «Sono consapevole di essere un semplice ostaggio, ma questo non vi esime dal trattarmi col rispetto che merito».

Sulle labbra del pirata comparve un sorriso arrogante e feroce e, prima che me ne potessi rendere conto, mi trovai contro la parete più vicina del corridoio che stavamo percorrendo, a pochi passi dalle scale che portavano sul ponte della nave.

Il volto del capitano era a pochi centimetri dal mio, le sue mani erano premute ai lati del mio viso sconvolto.

«Avete detto bene, Caterina, siete un semplice ostaggio e gradirei che ve lo ricordaste anche in futuro», disse lui, ferocemente, le labbra pericolosamente vicine alle mie.

Il mio cuore ardito iniziò a battere furiosamente, mentre pensieri scellerati si facevano strada nella mia mente da fanciulla.

Senza pensare a quello che stessi per dire, aprii bocca: «State cercando di intimidirmi, capitano?»

«Sì, sta funzionando?»

«Se mi state così vicino non è timore quello che provo», dissi, sfacciata come raramente ero stata in vita mia.

A causa della mia rigida educazione, impostami in un primo tempo da mio padre e dalla balia e, successivamente, dalle Orsoline, avevo sepolto sotto la mia maschera da perfetta dama di corte la sfacciataggine dell'adolescenza e la ribellione che da sempre aveva caratterizzato il mio animo inquieto.

Trovarmi su una nave di pirati, dove la morale e il buon costume erano messi da parte per permettere alla malizia e alla violenza di dominare gli animi, poteva permettermi di esplorare un lato di me stessa che avevo represso nella buona società.

Il manigoldo e la duchessaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora