18. Al chiaro di luna

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Giugno 1820, Napoli


La taverna dove ci trovavamo, vicino al porto di Napoli, puzzava di pesce, vomito e vino fermentato.

Avevo bevuto un sorso di birra per festeggiare con il resto della ciurma, poi mi ero tenuta in disparte, terrorizzata dai volti arcigni che circondavano la nostra allegra tavolata.

Ad ogni respiro il mio mal di testa peggiorava e aumentava la voglia di fuggire a prendere una boccata d'aria fresca all'esterno.

Il capitano David, seduto accanto a me non aveva bevuto molto, ma non si asteneva dal sollevare il boccale ogni qual volta un membro della ciurma proponeva un brindisi, limitandosi ad inumidirsi leggermente le labbra e a porgermi la bevanda per invitarmi a bere a mia volta.

Dopo il nostro viaggio di ritorno, che io avevo passato per la maggior parte a sonnecchiare tra le braccia del capitano, erano iniziati i festeggiamenti per la riuscita del piano e mi erano mancati il tempo e le forze per parlare col capitano di quanto era successo in carrozza.

Ero sconvolta da quanto facilmente fossi stata disposta a concedere la mia virginea purezza a colui che, fino a due giorni prima, consideravo un uomo spregevole, il mio rapitore, un manigoldo.

Eppure, più riflettevo sui fatti, più mi rendevo conto che la vergogna che provavo era infondata.

Ero una donna libera, una pirata, e in quanto tale avevo il diritto di decidere da sola della mia vita e scegliere quella che ritenevo potesse essere la giusta condotta da mantenere.

In mezzo al mare non esistevano la morale e l'etica cristiana a cui ero abituata, in mezzo al mare valeva la legge del più forte, vinceva l'egoismo dei propri desideri e nel mio cuore e nella mia mente non esisteva desiderio maggiore di quello che provavo nei confronti del capitano David.

Sapevo che era rischioso concedermi carnalmente a lui; ero consapevole delle possibili conseguenze, ed era per questo che volevo parlare con il capitano e chiarire fin da subito la mia posizione.

«A Marlena!», urlò un uomo della ciurma, riportandomi alla realtà; al chiasso e all'odore rancido della taverna.

Il capitano sollevò il boccale, un enorme sorriso in volto e ripeté con affetto il brindisi, bevendo un piccolo sorso di birra, prima di porgermi il boccale.

«Chi è Marlena?», chiesi, stupita dalla punta di gelosia che percepii chiaramente nel mio tono di voce, prima di afferrare il boccale e bere un generoso sorso.

Gli occhi del capitano mi scrutarono divertiti: «Non siate gelosa, Caterina», disse, per poi aggiungere sottovoce, al mio orecchio: «Sapete che non ne avete alcun motivo, vero?»

Sentii un brivido attraversarmi la schiena e mi feci involontariamente più vicina al capitano, la cui mano destra si appoggiò sul tessuto leggero dei pantaloni che indossavo, le sue dita premute sulla mia coscia fremente.

«Non avete risposta alla mia domanda, Damiano», dissi, osservando il suo volto pericolosamente vicino al mio e il modo lascivo e provocante in cui si stava leccando le labbra: «Chi è Marlena?»

«È il nome della nave, Caterina, nome scelto dalla contessa Sylvie d'Ambrose in memoria della sua primogenita, morta in tenera età», disse, una nota di tristezza nel tono della sua voce: «L'ho conosciuta quando lavoravo come sguattero, era una bambina vivace e intelligente, me la ricordate per certi versi. Marlena sarebbe potuta diventare una donna forte come voi, se la sorte non l'avesse strappata da questo mondo troppo presto».

«Eravate innamorato di lei?»

«No, ero un bambino, non ero innamorato di lei, ma la ammiravo e rispettavo, così come ammiro e rispetto la contessa, senza la quale non sarei qui oggi, con voi».

Il manigoldo e la duchessaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora