15. En guarde

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Giugno 1820, Isola di Montecristo


Appena finii di mangiare, avvolsi la coperta del mio giaciglio intorno al mio corpo, così da coprire un minimo la mia biancheria intima, e mi avvicinai alla porta della mia cella.

Emisi un leggero lamentio quando mi resi conto che l'uscio era bloccato, anche se sapevo che non mi sarei dovuta aspettare diversamente, e iniziai a colpire, in modo molto poco aristocratico, il legno con pugni vigorosi.

Stavo per arrendermi e tornare ad accasciarmi sul mio scomodo giaciglio, quando la porta si aprì e Torchio mi osservò con aria incuriosita: «Cosa volete?»

Aprii bocca, mi schiarii la voce e dissi: «Gradirei che comunicaste al capitano David che accetto la sua generosa proposta».

Lo sciamano sollevò un sopracciglio scuro e sorrise: «Proposta?»

Non sapendo se avevo il permesso di comunicare i dettagli della conversazione, avuta poco prima col mio rapitore, preferii rimanere sul vago: «Il capitano capirà a cosa mi riferisco».

Torchio annuì e richiuse la porta, lasciandomi nuovamente sola.

Ero talmente emozionata, che iniziai a camminare avanti e indietro nella stanza, incapace di rimanere ferma.

L'ultima volta che avevo provato la stessa agitazione era stato pochi giorni prima, quando aspettavo con impazienza le missive di quello che credevo essere il mio amato, colui che si era scoperto essere un manigoldo pronto a rapirmi pur di ottenere un guadagno.

Ripensai a quelle lettere e all'ardore che il capitano David aveva finto di provare nei miei confronti e sospirai, affranta, per la facilità con cui mi ero lasciata prendere in giro da lui.

Quando la porta della mia cella si aprì, fermai il mio inutile vagare e puntai lo sguardo in quello del mio rapitore, il quale aveva un'espressione particolarmente soddisfatta in volto.

«Vi ho portato qualcosa da indossare», disse, porgendomi una camicia e un paio di pantaloni scuri.

Afferrai con gesti titubanti quegli indumenti, così diversi da quelli che ero abituata ad indossare abitualmente, e mi chiesi come sarebbe stato portare per la prima volta in vita mia qualcosa che non fosse una gonna o un abito.

«Avete bisogno di una mano per indossarli?», mi chiese il capitano, notando probabilmente la mia espressione colma d'incertezza.

«Penso di potercela fare», ribattei, cercando di nascondere l'imbarazzo, che provavo in quel momento, dietro uno sguardo determinato.

Il capitano David mi sorrise e annuì: «Bussate quando siete pronta», disse, chiudendo la porta della mia cella.

Una volta sola non persi tempo e mi sfilai di dosso la coperta, gettandola sul mio giaciglio, poi sfilai la sottoveste, rimanendo con il corsetto e i mutandoni.

Indossai i pantaloni scuri e la camicia, entrambi gli indumenti mi stavano particolarmente larghi e sperai vivamente che il capitano David avesse una soluzione a quel problema.

Bussai all'uscio con una mano, mentre con l'altra sostenevo i pantaloni.

Il mio rapitore rise e scosse brevemente la testa: «Penso che abbiate bisogno di una cintura, Caterina».

«Lo penso anche io, Damiano», ribattei, decisa a usare il suo nome di battesimo ogni volta che lui avesse fatto lo stesso con me.

«Per voi sono il capitano David», disse, guardandomi con occhi seri, mentre si sfilava con gesti lenti e precisi la cintura che gli reggeva i calzoni alla zuava.

Il manigoldo e la duchessaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora