10. Il piano

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Giugno 1820, su una nave pirata


«Voi!?», esclamai con gli occhi fuori dalle orbite e la mano ancora stretta intorno al ciondolo a forma di croce che portavo al petto: «Siete stato voi a rapirmi? Perché mai, barone?»

L'uomo si sollevò dalla poltrona, senza distogliere il suo sguardo attento e sinistro dal mio.

Gli occhi che un tempo mi erano parsi tanto ammalianti, mi ricordavano in quel momento quelli color brace, che avevo intravisto in tenera età, in un illustrazione che raffigurava il Diavolo. Le Orsoline mi avevano punita aspramente quando avevo confessato di aver provato pena per quell'essere tanto spregevole; le mie pallide e delicate mani portavano ancora sui palmi le cicatrici bianche e sottili, che mi erano state lasciate quando una religiosa aveva usato la verga sulla mia giovane carne, come monito.

In quel momento, mentre osservavo il modo in cui il fuoco della lampada ad olio sembrava riflettersi in quegli occhi maligni, non provavo pietà per il barone, ma per me stessa e il mio cuore che si era illuso, ingenuamente, lasciandosi ammaliare da quello sguardo lussurioso.

Avevo creduto che il barone potesse essere l'unico mezzo per giungere alla felicità, che avevo agognato per tutta la vita e la messaggera di Cupido aveva rafforzato quella mia convinzione.

Che illusa che ero stata!

Avevo gettato alle ortiche il vantaggioso matrimonio con il duca Thomas Raggi della Rovere, convinta di meritare di più, per cosa?

Per l'effimera illusione di aver trovato il vero amore?

«Volete forse farmi credere che se vi avessi proposto di fuggire con me qualche ora fa, in quel giardino, mi avreste seguito?», chiese il barone, inclinando leggermente il capo.

La luce della lampada ad olio illuminava solo in parte il suo volto, creando giochi d'ombre su quei lineamenti, che dovevano appartenere al Demonio in persona.

Strinsi le labbra in una linea sottile colma di amarezza, rendendomi conto che la risposta a quella sua crudele domanda era sì.

«Non l'avreste fatto, Caterina, lo sappiamo benissimo entrambi», continuò lui, senza aspettare di ricevere risposta: «Ma avevo bisogno che voi saliste su questa nave, volente o nolente. Vedete, Caterina, la vostra famiglia è molto antica, molto ben conosciuta e, soprattutto, molto ricca».

Aggrottai la fronte nel sentire quelle parole, intuendo cosa intendesse il barone: «Volete domandare un riscatto a mio padre?»

Il barone sorrise aspramente, mettendo in mostra i suoi denti ferini: «Esattamente. Quanto pensate che possa valere il vostro onore, per il duca Ramirez, Caterina? Cinquantamila, centomila scudi?»

Colta alla sprovvista da quelle parole, non riuscii a trattenermi e l'ilarità che stavo cercando di contenere, esplose, dando vita ad una risata colma di incredulità e orrore.

Il barone David rimase a osservarmi con occhi allucinati, spostando ogni tanto lo sguardo verso il pirata Torchio.

«Vi sentite bene, Caterina? Siete forse impazzita?», domandò lui, muovendo un passo nella mia direzione. Dovevo rendergli atto che sul suo volto l'emozione che appariva predominate sembrava vera preoccupazione.

«Oh, barone», ansimai, tra una risata e l'altra, faticando a riprendere fiato normalmente.

«Non sono un barone, Caterina, sono il capitano di una nave pirata», specificò lui, arricciando il naso: «Mi sono finto di rango aristocratico solo per potermi avvicinare indisturbato a voi».

Quella rivelazione, rispetto a quelle precedenti sarebbe dovuta risultarmi insulsa, invece mi fece provare un forte senso di spaesamento. Avevo creduto di essere in presenza di un gentiluomo caduto in rovina, pronto a legarsi a dei pirati pur di ottenere le ricchezze che gli erano state sottratte dal gioco e dalle brutte compagnie; invece quello che avevo di fronte era un vero e proprio manigoldo, un pirata avido e lussurioso.

Il manigoldo e la duchessaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora