19. Passato e futuro

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Giugno 1820, Roma



Gli occhi di mio padre mi trafiggevano come spilli acuminati, costringendomi a tenere lo sguardo basso.

Mi ero svegliata nel mio letto quella mattina, con Annarita in lacrime, che ringraziava il Cielo per avermi riportata a casa sana e salva, lontana dalle grinfie di Sarana.

Era stato un risveglio orribile, ma nulla in confronto al disappunto e alla rabbia che leggevo chiaramente nella postura e nell'espressione del duca, mio padre.

«Spero che il signor Tabasco ti abbia trovata prima che la tua verginea purezza ti venisse carpita con la forza o l'inganno», disse con voce fredda, facendomi rabbrividire: «Allora, figliola, sei ancora vergine?»

Annuii, tenendo lo sguardo fisso al suolo, confusa dai recenti avvenimenti.

Mi sembrava di sentire ancora le mani delicate del capitano David sul mio corpo e i suoi baci passionali contro le mia labbra tenere; ero stata allontanata da quel magico momento troppo bruscamente e gli interminabili pianti e le poche ore di sonno sembravano un crudele incubo, rispetto al magico sogno che avevo provato tra le braccia protettive del mio rapitore.

«Me ne compiaccio», disse mio padre, riprendendo a sorseggiare il caffè amaro della colazione: «Spero per te che tu non mi stia mentendo, sai cosa succede a chi mente, vero?»

Un'immagine molto chiara, che portava con sé un dolore indescrivibile, mi accecò per alcuni istanti.

Sì, sapevo cosa succedeva ai bugiardi.

«Non ho mentito, sono ancora vergine», dissi, sollevando lo sguardo, le gote arrossate per la rabbia.

La tazzina si abbatté sul tavolaccio della sala da pranzo, spargendo parte del contenuto intorno a sé.

«Non mi mancare di rispetto, signorina», disse mio padre, le labbra atteggiate in una smorfia severa: «Dobbiamo ringraziare il Signore che il duca Raggi della Rovere sia ancora interessato a te, malgrado la tua fuga».

«Non sono fuggita, sono stata rapita», dissi con un filo di voce, tenendo lo sguardo basso.

«Davvero? E allora come spieghi il fatto che il signor Tabasco non ti abbia trovata legata e impaurita, ma libera e ad amoreggiare con un uomo?»

Mi morsi la lingua e cercai di scacciare le lacrime che minacciavano di rigarmi il viso: «Quell'uomo mi stava minacciando».

Ricevetti uno schiaffo in pieno viso e la voce del duca sembro giungermi ovattata: «Caterina, non mentirmi!»

Ignorai il dolore alla guancia, facendomi forza per non piangere di fronte alla crudeltà di mio padre.

«Sono certo che al Sant'Orsola sarebbero felici di ospitare una piccola bugiarda irrispettosa come te».

Quelle parole mi gelarono il sangue nelle vene e per qualche secondo venni accecata dai ricordi.

Il manicomio di Sant'Orsola di Bologna era dove mia madre si trovava da anni, dopo esser stata scoperta da mio padre, ubriaco, con il giardiniere, il signor Fiorino.

Ricordavo chiaramente quella notte, anche se cercavo solitamente di non soffermarmici troppo, a causa del dolore che rivivere quella notte mi provocava.

Ero ancora una bambina ai tempi e papà aveva da poco iniziato a bere e a giocare, malgrado mamma gli consigliasse di dedicarsi ad attività meno dispendiose, dato il periodo di crisi in cui versava la nostra famiglia.

Trascorrevo gran parte delle giornate nei giardini con mamma, che mi insegnava i nomi dei fiori e giocava con me a nascondino nel labirinto. Il signor Fiornino giocava spesso con noi e portava sempre a me e mamma una rosa, o un tulipano o un garofano. Per quanto fossi piccola, sarebbe stato impossibile non notare il modo in cui mamma sorrideva radiosa, odorando i piccoli regali del giardiniere.

Il manigoldo e la duchessaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora