5. Timori

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Giugno 1820, Roma


Il silenzio gravava nella stanza.

Il maggiordomo Bellofy Guglielmo aveva appena aiutato la cuoca a portare in tavola le pietanze.

Io sedevo accanto a mio padre, fissando insistentemente il bordo scheggiato del piatto.

Un tempo un maestoso tavolo di legno massello del 1722 appartenuto all'onorevole avo Ferdinando Francisco De la Rosa Ramirez abbelliva la sala da pranzo, ora invece a causa delle ristrettezze economiche mio padre l'aveva sostituto con un più semplice tavolo di legno tarlato.

Un sospiro amaro quanto la fiele irruppe dalla mie labbra.

Pensieri di varia natura affollavano la mia mente.

«Ruiseñor, che cosa ti turba?»

«Mi stavo solo domandando, se non fosse possibile posticipare di qualche mese il matrimonio col duca. Vorrei conoscerlo meglio prima di...»

«Che scempiaggini vai dicendo? Conoscerlo meglio? Hai idea delle condizioni in cui versa la nostra famiglia?», berciò: «Non ti sei forse resa conto della precarietà della nostra condizione? Questo matrimonio è l'unica cosa che ci potrà salvare dal lastrico!»

Abbassai lo sguardo, le guance infiammate dalla vergogna.

Sapevo che mio padre era assillato dai creditori che minacciavano il buon nome del nostro casato.

Aveva già venduto e ipotecato la maggior parte del nostro mobilio e svenduto i terreni più fertili, riducendo la mia dote a qualche antico gioiello di famiglia e un buon nome.

Inspirò a fondo: «Capisci che non è possibile rimandare? Fallo per il tuo buon vecchio. Il duca Raggi della Rovere è estremamente premuroso e dolce nei tuoi confronti. Sarà un marito esemplare, non ti farà mancare nulla».

Annuii piano, le costole sembrarono stringere in una morsa il mio cuore.

Tutto ciò che riuscii a mormorare fu un sommesso: «Comprendo, padre, non vi deluderò».

Bellofy Guglielmo scostò la mia sedia dal tavolo e con un inchino mi augurò la buona notte. Era il nostro fedele maggiordomo da quando ero poco più che un'infante. Adoravo quell'uomo e le canzoni strampalate che metteva su con pochi accordi per farmi addormentare la sera. Sapevo che mio padre presto avrebbe dovuto licenziarlo e la cosa mi dispiaceva molto.

Come ogni sera, Annarita mi aiutò a indossare la mia tenuta notturna e spazzolò accuratamente i miei folti capelli bruni.

Prima di spegnere la candela e abbandonarmi tra le braccia di Morfeo, estrassi furtivamente dal cassetto della scrivania le lettere speditemi per mano di Annarita dal barone Damiano David.

Le rilessi con fervore e mestizia.

Oh, misera me! Come potevo io sciocca ragazzina placare le fiamme che divoravano la mia essenza?!

Mi portai i pugni al petto, sapevo che l'unica soluzione sarebbe stata concedermi alle avide attenzioni di quell'oscuro individuo, che come un falco pellegrino era apparso nella mia esistenza!

Scattai in piedi con il dorso della mano appoggiato alla fronte.

Dovevo dimenticarmi di quel ruffiano, perché i suoi fugaci baci da Satanasso non erano nulla in confronto a una prospera unione coniugale con il buon Thomas Raggi della Rovere.

Or dunque perché le mie membra vibravano ancora al pensiero del barone?

Caddi in ginocchio e coprii il mio viso striato di lacrime con le mani.

Ingoiare del veleno sarebbe stato un supplizio più tollerabile.

Rotolai a terra e vi rimasi, sentendo le forze venire a meno.

***

Buongiorno popolo di Wattpad!

Chiedo scusa per il capitolo breve, dal prossimo saranno più lunghi, ma era necessario mostrare (anche se c'erano degli indizi nei precedenti capitoli) la situazione economica del padre di Caterina, così da spiegare perché non vede l'ora di farle sposare un ricco duca.

Per il resto abbiamo i soliti pensieri melodrammatici di Caterina, niente di nuovo insomma.

Riuscirà Caterina a coronare il suo sogno? O si accontenterà del duca?

Spero che il capitolo vi sia piaciuto e che abbiate tempo e voglia di farmi sapere cosa ne pensate!

Ricordo che per chi volesse mi può trovare su Instagram, il nome dell'account è lazysoul_efp.

Un bacio,

LazySoul_EFP

Il manigoldo e la duchessaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora