13. Grotta

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Giugno 1820, Isola di Montecristo


Quando mi svegliai sentii un dolore freddo nelle mie membra stanche, dovuto molto probabilmente all'ambiente umido della grotta dove avevo dormito.

Il mio sonno quella notte non era stato tranquillo. Mi ero svegliata più volte a causa dell'ululare del vento o del forte ticchettio dell'acqua che colpiva il terreno e gli alberi. Per non parlare degli incubi.

La prima cosa che constatai, svegliandomi, fu di non essere sola.

Durante la notte la grotta era diventata il rifugio di una decina di capre, che in quel momento dormivano placidamente sulla roccia viva.

Credevo di aver sognato il loro arrivo nel mio rifugio, a quanto pareva invece il belare, che avevo creduto un ricordo onirico, era reale.

Facendo il minor rumore possibile andai ad abbeverarmi alla sorgente, poi tornai sul mio giaciglio e mi strinsi le ginocchia al petto, portandomi in posizione fetale.

Misera me! Come potevo sperare di cavarmela da sola su un'isola a me sconosciuta, lontana da casa e dalla civiltà?

Presi in considerazione l'idea di tornare indietro, di raggiungere il monastero e rinchiudermi con le mie stesse mani nella stanza-prigione che mi era stata assegnata, luogo in cui almeno ero sicura che non sarei morta di fame.

Un brivido mi attraversò la colonna vertebrale e feci il possibile per non scoppiare nuovamente a piangere.

Era quello il destino che mi spettava se fossi rimasta in quella grotta? Morire di fame?

Non ero sicura che fosse una morte degna della figlia di un duca in rovina, ma in fondo cosa potevo saperne io della vita, quando ero stata cresciuta in una campana di vetro?

Scossa dai singhiozzi, iniziai a piangere, accompagnando con la mia disperazione la pioggia furiosa che si abbatteva violentemente contro il terreno brullo oltre l'ingresso della grotta.

Fu in quel momento, mentre cercavo di calmare le mie emozioni, che mi sembrò di sentire il mio nome mescolarsi al ticchettio della pioggia e all'ululare del vento.

Spaventata mi sollevai in ginocchio e mi guardai intorno, chiedendomi so fosse stata la mia mente a giocarmi quello scherzo crudele.

Era possibile perdere il senno in così poco tempo? Possibile che la fame e la stanchezza avessero simili ripercussioni sulla mia mente?

Non lo sapevo e più me lo chiedevo, più sentivo il mio nome rimbombarmi nelle orecchie.

«Caterina! Caterina!»

Prima che potessi urlare per chiedere alla voce cosa volesse, mi resi conto che giungeva dall'ingresso della grotta, dove una silhouette scura stava avanzando.

«Caterina», ripeté quella voce, con un tono che sembrava sollevato: «State bene?»

Appena riconobbi il proprietario della voce e capii quello che stava succedendo, mi sollevai in piedi e mi guardai intorno, alla ricerca di una via di fuga.

«Statemi lontano!», urlai spaventata.

Il capitano David non ascoltò la mia richiesta e si avvicinò ulteriormente, sgocciolando copiosamente sul pavimento della grotta.

«Cosa vi è saltato in mente, Caterina?!», chiese il mio rapitore, avanzano con passo deciso verso di me: «Potevate morire!»

Mi spostai lungo la parete di roccia, cercando di allontanarmi il più possibile da lui: «Vi aspettavate davvero che non provassi a fuggire da voi?», chiesi, con un tono di voce alterato dalla paura.

Il manigoldo e la duchessaDove le storie prendono vita. Scoprilo ora