14 - Grazie, Joan.

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Cherry



Attraversiamo la strada per ritrovarci davanti al piccolo bar del nostro quartiere. Alexander è il principale ritrovo di tutti gli abitanti della cittadina, essendo l'unico locale esistente in diversi chilometri. Il campanello appeso sopra la porta annuncia il nostro ingresso al cameriere che, con un sorriso gentile, ci fa accomodare a un tavolo piuttosto isolato, organizzato nell'angolo del locale. La grossa vetrata ci permette di guardare la città ancora in veloce movimento nonostante siano quasi le sei del pomeriggio. Il cielo, da chiaro e splendente che era fino a poche ore prima, si trasforma in un velo scuro e pronto a scaricare tutta la sua furia sulla cittadina. Mi libero della felpa e la posiziono sulla panca di legno accanto a me mentre Joan prende posto sulla sedia in vimini dall'altro lato. Non ha parlato molto durante il tragitto per arrivare qui e, per qualche ragione, glie ne sono grata. Non sono più abituata a fare una conversazione normale.

Osservo attentamente il menù in ardesia posizionato al centro del tavolo, giocando con un elastico nero tra le dita. Ci sono alcune persone sedute ai tavoli vicini che ci guardano con curiosità e, nonostante non conosca le ragioni per cui lo facciano, mi mettono a disagio. Il ragazzo davanti a me sembra notarlo e sbuffa pesantemente, attirando l'attenzione su di se. Inarco un sopracciglio non in modo sgarbato, bensì confuso, guardando la sua espressione tramutare in un velo di nervosismo. Estrae il cellulare, appoggiandolo sul tavolino.

«Hai sentito Wesley?» domanda noncurante, sbloccando successivamente l'oggetto con l'impronta del pollice. Sentendo nominare il ragazzo, mi torna in mente la conversazione fatta con mio fratello. Molto probabilmente lo arresteranno, e Joan non può non esserne a conoscenza. Oltre al fatto di essere amici, avrà sentito la notizia tramite qualche telegiornale o grazie a qualche persona in giro per la cittadina.

Nonostante ciò, i suoi occhi non tornano nei miei. Rimangono fissi su una conversazione aperta che non riesco a sbirciare, essendo troppo lontano da me. Scuoto solamente la testa, dando risposta al ragazzo che sbuffa nuovamente. Non ho mai capito a fondo il suo carattere. Sembra calmo e tranquillo la maggior parte delle volte, ma ha questo lato fin troppo scorbutico e scontroso che spunta fuori quando meno te lo aspetti. Velocemente afferra il telefono e digita in modo furioso sulla tastiera, come se avesse poco tempo per comunicare qualcosa di importante. Dalla sua espressione, posso dedurre che sta cercando di contattare proprio Wesley. Probabilmente mi ha chiesto sue notizie perché, in fondo, anche lui è preoccupato. Lascia cadere nuovamente il cellulare sul tavolino e rialza lo sguardo su di me; si sta facendo consumare dall'ansia, lo riesco a vedere.

«Ordiniamo?» domanda in un sussurro, passandosi una mano tra i corti capelli rossi. Vorrei chiedergli, senza alcun motivo valido, perché ha scelto proprio quel colore... ma so che non otterrei nessuna risposta e, per giunta, non mi sembra proprio il momento adatto per fare questo tipo di conversazione. Perciò annuisco, osservandolo mentre compie il mio stesso gesto, ma molto più lentamente. Sembra distratto. Alza una mano verso il cameriere che ci ha accolto poco fa, facendolo avvicinare al nostro tavolo. Non seguo la conversazione amichevole che stanno intrattenendo, ho smesso di ascoltare dopo aver sentito la voce di Joan ordinare gentilmente due cioccolate. Mentre loro si scambiano battute, tiro fuori il mio cellulare. Qualcosa mi spinge a mandare un messaggio a Wesley, anche se dubito mi risponderà. Se non risponde a uno dei suoi più cari amici, perché dovrebbe rispondere a me? Decido comunque di mandargli un semplice messaggio, un misero "Come stai?". L'assurdità della domanda mi fa sospirare con tristezza. Come dovrebbe stare? Probabilmente tra non molto tempo lo porteranno in carcere con l'accusa di omicidio.

Aspettiamo l'arrivo delle cioccolate in un silenzio quasi straziante. Joan ha lo sguardo perso nel vuoto e io, in balia dei miei pensieri, non riesco a parlare. Il cameriere appoggia due tazze fumanti sul tavolino e nel sentire il mio flebile ringraziamento ci lancia una fugace occhiata incuriosita. Decide comunque di andarsene dopo qualche istante, capendo di non essere nella posizione giusta per fare domande.

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