La mattina seguente andai dal dottore. Mia madre era rimasta parecchio sconvolta dall'accaduto del giorno prima e io, da sempre ipocondriaca, avevo già iniziato a preparare la lapide.
"Una semplice colite dovuta allo stress. Possiamo provare con una terapia semplice per ora". L'unica cosa che capii di ciò che il dottore disse fu questa. Ero in ospedale, reparto malattie del fegato. Feci una serie di esami, quella mattina, troppi e troppo complicati per essere elencati.
* * *
Passarono svariati giorni, che divennero settimane e poi mesi. Con Luca stava andando tutto bene, almeno fino a quando non conobbe Leila...una Barbie, in tutto. Non serve che dica come andò a finire. Ma che potevo aspettarmi?
Con Laura e Valeria avevo chiuso. Rispettivamente, la prima di queste due faceva ogni singolo movimento che facessi io, non rendendosi conto che sembrava la mia ombra, diventando inquietante ed imbarazzante. E la seconda cercava di mettermi i bastoni fra le ruote per dimostrare chissà che cosa.
A ripensarci ora, mi viene da ridere. Non so dire se per divertimento o disperazione, fatto sta che sto ridendo. Provare soddisfazione nel buttare giù qualcuno non è un po' eccessivo per due ragazzine di tredici anni?
Ora starete pensando che sia finita così, no? Cioè, delle persone smettono di vedersi e morta lì, insomma...pace e bene, no? Ecco, appunto: no.
Una mattina di Maggio rimasi a casa: non me ne ero resa conto, ma da quando avevo avuto quell'episodio, a Marzo, rimanevo a casa frequentemente. Non so per quale miracolo io abbia passato quell'anno scolastico. Nessuno mi vedeva più. Non facevo sport, la compagnia l'avevo lasciata, non andavo in centro città, non viaggiavo: niente di niente. Ero diventata un fantasma. Ma si sa che i rompi cazzo che vanno a rievocare i fantasmi esistono sempre, giusto?
Ebbene, quella mattina mi arrivò un messaggio: era Sara, la mia compagna di banco che, amica da sempre di Laura e Valeria, riusciva a dividersi per non lasciarmi sola senza farsi escludere dalle altre due.
"Grace, a scuola hanno incolpato te del video che abbiamo girato in spogliatoio". Ahn si, quel video. Poco tempo prima avevamo girato un video di una challenge. Sapete quei video per TikTok, con quelle...Aspetta avevo letto bene? Solo perché non ero nel video ed ero in bagno allora era colpa mia?
Un brivido freddo mi scese lungo la schiena. Avevo due opzioni: mantenere la calma e il giorno dopo spiegare ciò che era successo, oppure usare il metodo "fatti, non parole". Scelsi la prima.
Il giorno dopo, quindi, accompagnata da quella che era diventata la mia amica più fidata - depressione - , andai a scuola.
Tornando dopo una settimana di assenza mi sarei aspettata come minimo un saluto, un "come stai?" o qualcosa di simile. Invece, come se non fossi mai stata a casa, i miei compagni mi guardarono straniti. In particolare, due delle ochette - così le chiamavo io - che sono al primo banco mi guardando ridendo e bisbigliando qualcosa verso il ragazzo a cui facevano tutte il filo: Enrico. L'unica soddisfazione di quell'entrata in classe me la diede lui: non rise a nessuna delle loro battute, facendole sentire più stupide di quanto effettivamente non fossero.
"Grace, possiamo parlare?" mi disse la professoressa, di colpo.
"Certo, dica pure" risposi il più educatamente possibile, andando verso di lei. Avevo le mani congelate e un attacco d'ansia in arrivo. Cercai velocemente di prendere le gocce che mi aveva dato il dottore e che, per fortuna, funzionarono; mi calmai e presi un respiro profondo.
"Non credo a una parola di ciò che mi hanno detto, perciò voglio che ti tranquillizzi, non verrai punita. Solo, che non si ripeta più". Sentii la tensione che scendeva farsi pesante, e mi appoggiai al muro.
Rientrando il classe, fui accolta da Valeria: "Mi spieghi cosa credevi? Pensavi di passarla liscia, Grace?". Io non risposi.
"Già carina che pensavi?" incalzò Laura, a ruota. Avrei voluto ribattere dicendo ciò che pensavo realmente, davanti a tutti, fregandomene totalmente delle conseguenze. Poi, però, notai che anche quel giorno Laura era vestita come me e tutte le mie domande sul perché facesse così trovarono risposta. L'unico significato di "classe" che quelle due avessero mai conosciuto poteva essere associato al "gruppo di persone" di cui facevano parte a scuola.
* * *
Per giorni le sopportai, senza mai dire nulla e senza che nessuno mi chiedesse mai come stessi. Le odiavo, odiavo quella scuola e anche me stessa per essermi fidata.
Sapevo, però, di avere dei punti di vantaggio nel settore "intelligenza" nel momento in cui mi accorsi che l'unico luogo in cui cercavano di rendermi la vota impossibile era la scuola. Avevano i professori perennemente dalla loro parte, la maggior parte dei compagni le ascoltava come se ce l'avessero d'oro e i genitori potevano intervenire in qualsiasi momento. Ragion per cui non risposi mai.
Erano solo in attesa di un mio passo falso, perennemente attente a ciò che facevo per captare qualcosa da trasformare in merda da buttarmi addosso. E un giorno, purtroppo, sbagliai di brutto.

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E questa sono io
ChickLitGrace, sedici anni e tante, tantissime cose da raccontare che vengono dal passato e che risuonano ancora nel presente, ma che non devono assolutamente intaccare il futuro. Troppe persone giudicano senza sapere, e bisogna assolutamente riordinare, pe...